Tutto ciò che non era stato il concerto di Rihanna la settimana scorsa, lo è stato il concerto di Beyoncé di questa settimana: queen Bee è riuscita a superare se stessa, battendo in grandiosità e in perfezione le sue due precedenti date milanesi degli anni scorsi (l’ultima delle quali, per il Mrs. Carter Tour, l’avevamo recensita qui). Nessun dettaglio all’interno di un suo live è lasciato al caso, tant’è che lo spettacolo comincia con i megaschermi che proiettano un annuncio all’apparenza non troppo importante, ma in realtà molto significativo: l’audio dell’impianto è certificato THX, lo stesso standard usato nel cinema per implementare al massimo la resa finale del suono. I megaschermi in questione, peraltro, sono un gigantesco cubo che misura circa dieci metri per lato e può aprirsi per far spuntare fiamme, scintille, nani e ballerine – okay, nani era un’iperbole, ma le ballerine spuntavano veramente da lì – dando così la possibilità a tutti coloro che avevano pagato fior di soldi per assistere allo show di poter davvero vedere e sentire tutto al meglio. L’esatto contrario di Riri, insomma. Nonostante tutto questo, però, alcuni possono avere avuto l’impressione che la musica passasse un po’ in secondo piano. Da un lato perché la band (ormai famigerata perché formata solo da musiciste donne) non è mai stata presentata ufficialmente e ha suonato per la maggior parte dello show nascosta dietro il megaschermo, con l’unica eccezione della comparsa in scena della chitarrista e della batterista in due momenti di cambio d’abito; dall’altro perché la presenza di alcune voci preregistrate di rinforzo era abbastanza evidente. Attenzione, però, perché non si trattava di playback: quelle voci vengono utilizzate per dare la possibilità a Beyoncé di riprendere occasionalmente fiato per pochi secondi durante le coreografie più complicate, ma lei non smette comunque mai di cantare e la voce principale resta sempre e solo la sua, e sempre e solo dal vivo. Quella quantità e quella varietà di vocalizzi non si possono assolutamente fingere usando qualche trucco di bassa lega. E se qualcuno avesse avuto dei dubbi sulle sue capacità di tenere le note, si sarà sicuramente ricreduto durante la clamorosa versione acappella di Love on top trascinata avanti all’infinito per volontà del pubblico: una canzone che sale di mezzo tono a ogni cambio di ritornello, praticamente impossibile per chi non possieda un talento sovraumano come il suo.
L’ultimo album di Bey, Lemonade, è tutto incentrato sul tradimento di suo marito Jay-Z e sul difficile percorso che li ha portati alla riconciliazione: non è però così per il tour, che prende il nome da uno dei singoli precedenti, Formation, che in realtà ha un chiaro messaggio femminista e antirazzista (il video è condito con molti riferimenti all’uragano Katrina e alla brutalità della polizia americana). Anche il tour prende le mosse da quel tipo di orgoglio: Beyoncé è fiera di essere donna, fiera di essere nera, fiera di tutti i suoi pregi e di tutti i suoi difetti. E le sue ultime disavventure personali e professionali non l’hanno resa più debole, ma solo più umana, più simpatica, più avvicinabile. Ti consola parzialmente, perché se è successo perfino a lei di ricevere insulti dalla polizia e dai poteri forti e di ritrovarsi cornificata dal marito in un momento così delicato, può succedere a tutti. E quel delicato velo di fragilità ti fa fare pace con il fatto che è sempre impeccabile, sempre in gran forma, sempre aggraziata e intensa e in perfetto equilibrio anche quando balla la sua Freedom in un palco appositamente allagato con 10 centimetri d’acqua. Perfezione, dicevamo, è l’unico vocabolo che può essere adatto a definire Beyoncé e ogni sua impresa: il Formation Tour non fa eccezione.