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Rancore & dj Myke: l’intervista

18-10-2015 Marta Blumi Tripodi

Rancore & dj Myke: l’intervista

Rancore e Myke sono da sempre noti per l’estrema complessità di suoni e stratificazione di significati di ogni loro pezzo, ma nonostante questo a ‘sto giro sono riusciti ad alzare ulteriormente l’asticella, lasciandoci senza parole. Ci riferiamo naturalmente a S.u.n.s.h.i.n.e., brano pubblicato quest’estate della durata di otto minuti abbondanti, talmente fitto di concetti e immagini che trovare il bandolo della matassa è difficilissimo (tra l’altro, un ringraziamento da parte di tutta la collettività a quel pazzo masochista che l’ha trascritta integralmente dall’audio e ha pubblicato il testo su Genius, pur con qualche errore; i diretti interessati ci informano che presto pubblicheranno una versione corretta delle liriche). S.u.n.s.h.i.n.e., però, è solo la punta dell’iceberg: si tratta infatti della title track di un EP in free download – si scarica da qui – in cui ogni brano è un mondo a sé tutto da scoprire. Anche quelli in apparenza più semplici, come ad esempio The Best Of, da cui è tratto il nuovissimo video che vedete qui sopra: un articolato taglia e cuci in cui Myke ha orchestrato rime provenienti da tutta la loro discografia e scratch freschi di fabbrica. Abbiamo incontrato i diretti interessati per farci raccontare qualcosa di più di questo monumentale lavoro, ma sappiate fin da subito che il responso resta uno solo: per capire S.u.n.s.h.i.n.e. fino in fondo l’unico modo è ascoltarlo tante, tante, tante volte.

Blumi: L’EP ha ottenuto ottimi riscontri, e S.u.n.s.h.i.n.e. è stata addirittura definita la più bella canzone rap di sempre (da Michele Monina in un articolo sul Fatto Quotidiano, ndr). Vi aspettavate un’accoglienza del genere?

Rancore: No, non ce l’aspettavamo, è stata una grandissima sorpresa. Anche perché S.u.n.s.h.i.n.e. è un brano molto particolare, non era così scontato che piacesse: dura otto minuti e oltretutto ha un arrangiamento e un testo di una complessità superiore alla nostra media. Per noi è stata una sfida fin dall’inizio, e siamo onorati di avere avuto una risposta così calorosa da parte della gente.

Dj Myke: S.u.n.s.h.i.n.e. rappresenta la massima espressione del nostro modo di produrre, scrivere e vivere la musica. La nostra soddisfazione, quindi, va oltre il semplice fatto che la canzone sia piaciuta: è una conferma del fatto che il nostro pensiero piace. È una bella ricompensa per tutti questi anni di sbattimento.

B: Perché fare uscire un pezzo così significativo in un EP in free download, tra l’altro? Molti altri lo avrebbero conservato per un album vero e proprio…

R: Perché non siamo mai stati così liberi.

D.M.: Per noi tutti devono avere la possibilità di ascoltare musica, indipendentemente da tutto: il nostro intento era arrivare a più persone possibile. Il mezzo non è importante, è la sostanza che conta davvero: e infatti Tarek (Rancore, ndr) dice “Tu non devi venerare il sole ma la luce che vedi”. È come quando vai a comprare un oggetto: non ti deve interessare se l’artigiano che lo ha costruito è bello e simpatico, ma solo la cura con cui ha costruito quell’oggetto.

B: Tornando alla sostanza, appunto, la domanda sorge spontanea: Rancore, cos’avevi in testa per scrivere un brano epico e monumentale come questo?

R: Avevo il bisogno viscerale di dire qualcosa che rimanesse, in primis a me e a Myke: una sorta di divina commedia o umana tragedia di quello che è stato il percorso fatto insieme finora. Le parole di S.u.n.s.h.i.n.e. esprimono un concetto in sé semplice: tutta la felicità del mondo si può trovare in una cosa sola. In un raggio di luce che buca le nuvole, il cielo che si schiarisce per un istante e che ti permette di vedere oltre: il sole è coperto, è al di là le nubi, ma grazie a quel singolo raggio tu riesci a vederlo e a percepire che è lì. Forse le parole che ho usato – e sono tante! – ancora non bastano a chiarire il concetto. Ma in fondo dev’essere chi ascolta a compiere il resto del viaggio, altrimenti tanto valeva fare un film. Anche se in un certo senso S.u.n.s.h.i.n.e. è un film… (ride)

B: Myke, cos’hai pensato la prima volta che hai sentito l’incredibile castello di pensieri che Rancore aveva creato sul tuo arrangiamento?

D.M.: Ho pensato che fosse uno dei testi più perfetti che fossero mai stati scritti, non solo in Italia: non c’è niente di simile neanche all’estero. E mi è anche venuta in mente un’altra cosa: la canzone, inizialmente per puro caso, dura otto minuti, e la luce del sole ci mette pressappoco otto minuti ad arrivare sulla Terra. Insomma, questa canzone è una sorta di sintesi della distanza che c’è tra la Terra e il sole. Per noi non basterà una vita per compiere quel viaggio, mentre lui è riuscito a condensare tutto il senso di quel percorso nello stesso arco di tempo che impiega la luce: otto minuti per una canzone sono tanti, ma per una cosa del genere sono pochissimi.

B: Curiosità: perché il titolo è scritto puntato, come se fosse un acronimo?

R: Fare un acronimo è come tenere un segreto: ovviamente il titolo ha un significato vero e proprio che solo chi ha la pazienza di andarsi a cercare potrà scoprire. D’altra parte, anche il brano è una specie di grande acronimo.

B: Parliamo invece delle altre tracce del disco, che apparentemente sono meno significative della title track ma in realtà hanno funzioni, valenze e messaggi molto precisi…

D.M.: Qualsiasi brano in confronto a S.u.n.s.h.i.n.e. sembra meno significativo, perché è una specie di compendio generale di tutto ciò che abbiamo fatto finora. Se S.u.n.s.h.i.n.e. è la testa, però, gli altri brani sono il corpo; l’uno senza gli altri non possono funzionare.

B: Partiamo da Tattattira, che con la scusa di parlare del dramma di creare un ritornello catchy critica fortemente un certo modo di fare musica nella speranza di attirare le masse… Voi, tra l’altro, avete sempre avuto una relazione complicata coi vostri ritornelli, che – tanto per cambiare – non sono mai particolarmente immediati, ma sempre molto incisivi.

R: E difatti il ritornello, in gergo musicale, si chiama l’inciso. Guarda, sui nostri ritornelli purtroppo non possiamo rispondere noi in prima persona, perché li scrive un terzo elemento della band, che ora non è presente.

B: Sarebbe?

R: Si chiama Il Ritornellaio.

D.M.: Qualunque critica tu abbia da fare, è colpa sua: sia per quelli troppo leggeri che per quelli troppo pesanti. Hai presente quando visiti una grande fabbrica di biro e scopri che c’è un tizio addetto a creare tutti i tappi? Ecco, noi abbiamo un addetto apposta per creare tutti i ritornelli. È difficile parlarci, bisogna prendere appuntamento, è una persona molto impegnata.

R: Negli anni si è sempre sentito molto trascurato da noi, per quello gli abbiamo dedicato una canzone. Anzi, non proprio una canzone intera, ma una strofa, per la precisione la terza; e ora è molto più tranquillo.

B: Il vostro rapporto con il ritornellaio è amichevole o conflittuale?

R: Odio e amore. Comunque ci ha sempre spronato a non fare ritornelli troppo semplici, perché giustamente deve sintetizzare il contenuto del brano.

D.M.: In generale c’è un rapporto di odio e amore anche con il ritornello, nell’Italia di oggi: o gli si dà un’importanza enorme, e di conseguenza la strofa passa in secondo piano, oppure si cerca di fare una cosa semplice e banale nella speranza che la gente se lo ricordi più facilmente. Noi al ritornellaio siamo simpatici proprio perché con noi si può permettere di fare cose che con altri non fa, e infatti ogni volta che abbiamo la fortuna di beccarlo per una cena si lamenta sempre del fatto che con gli altri proprio non si può discutere.

B: The best of, invece, è una messa in musica e scratch di frasi e citazioni prese da altre vostre canzoni: Myke, immagino sia stata più che altro una costruzione tua…

R: Faccio una premessa: credo che in questo EP Myke abbia realizzato uno dei lavori di produzione più complessi della storia del rap italiano. La title track è davvero fuori da questo mondo, Factotum è uno dei miei pezzi preferiti… E in The best of siamo ai limiti dell’impossibile, perfino io che l’ho vista fare non riuscivo a credere ai miei occhi e alle mie orecchie. Incastrare in un singolo brano tutta la nostra discografia, con ogni scratch a tempo, è di una difficoltà pazzesca. Arriva come un pugno nello stomaco.

D.M.: Lo so che non è carino passare tutta l’intervista a rimbalzarci i complimenti tra di noi, ma con un progetto come S.u.n.s.h.i.n.e. è impossibile non farlo, abbiate pazienza! (ride) Scherzi a parte, io vengo dallo scratch, passo ancora un’infinità di ore sui giradischi, e volevo unire la mia passione per il turntablism a quella per la produzione in un modo sensato. Ormai tutti sono d’accordo nel dire che il giradischi è uno strumento musicale, ma di gente che effettivamente lo usa come uno strumento musicale ce n’è molto poca, perché è troppo sbattimento. Ho passato qualcosa come cinque giorni chiuso in studio ventiquattr’ore su ventiquattro, riascoltandomi le acappella di tutti i nostri pezzi per riuscire a portare a casa The best of, ma per fortuna ho potuto attingere a una quantità industriale di rime fantastiche, perfette da scratchare e da mettere a tempo – è un pezzo che riesci tranquillamente a canticchiare – e addirittura in grado di dare un senso logico alle strofe, anche unendo concetti completamente diversi l’uno dall’altro.

B: Visto che lo nominavate poco fa, parliamo anche di Factotum.

R: Il tema è molto ermetico e non vogliamo svelare troppo, perché sarebbe come andare a raccontare la fine di un film a qualcuno che non l’ha ancora visto. Diciamo che sono tre storie collegate tra loro, su tre personaggi diversi che hanno una certa influenza e conoscenza di una città. La stessa piccola città dove si trovano il Disney Inferno e l’Horror Fast Food (il titolo di altri due celebri pezzi di Rancore e Myke, ndr), ma anche chiese, banche, bar, scuole, autobus. In mezzo a questo panorama urbano ci sono alcuni individui che conoscono il posto meglio degli altri, e magari sanno anche perché il Disney Inferno è stato costruito proprio in quel quartiere e chi è il proprietario dell’Horror Fast Food. Per scrivere questo pezzo mi sono dovuto immedesimare completamente in questi tre individui, perciò se qualcuno nei mesi scorsi mi avesse per caso visto girare in chiesa, al bar o in banca, non mi faccia domande… (ride)

D.M.: Aggiungo un piccolo gossip: questi tre conoscono il ritornellaio.

B: Ma sul serio? E in che rapporti sono con lui?

D.M.: Molto stretti! Tornando seri, anche se la serietà è sopravvalutata, a volte ho difficoltà a fare Factotum dal vivo perché a livello di rap è il più complicato di tutti: anche l’arrangiamento, oltretutto, è studiato come se fosse la colonna sonora di un film che segue questi tre individui che vedono gente e fanno cose. È una specie di fumetto, tipo un Dylan Dog diviso in tre capitoli e un epilogo di delirio finale.

B: Rancore, siamo arrivati al momento più atteso dalle tue fan: quello in cui (come ogni volta che ti intervistiamo) cerchiamo di rompere il muro della tua riservatezza e di farti svelare qualcosa di nuovo su di te. C’è qualcosa che vuoi condividere con noi stavolta?

R: Mah! Quello che sentivo di dover dire l’ho detto all’interno del disco, dove non ci sono cose personali ma in realtà ogni cosa è personale. Nel senso, non moltiplico i pesci – che di per sé non vuol dire niente ma è molto figo da dire, perché così la gente si chiede che cosa intendevo e nel frattempo io ho evitato di rispondere alla domanda… (ride) Seriamente, preferisco non dire nulla perché non vorrei spostare l’attenzione su me stesso: preferisco che i riflettori rimangano accesi sul disco, su ciò che di me traspare dalle mie canzoni. Non voglio mostrare il sole in un momento in cui mi sento ancora immerso tra le nuvole.

B: Insomma, il contrario di quello che fanno molti tuoi colleghi che si costruiscono un personaggio e cercano di attirare l’attenzione tramite quello?

R: Il mio personaggio è quello che quando rappa te sfonda. Punto. Non credo ci sia bisogno d’altro! O forse ce n’è bisogno, ma se alla base di tutto non c’è questo, è impossibile costruire personaggi. E con Myke ne abbiamo creati tantissimi: in ognuno dei nostri dischi indossiamo milioni di maschere.

B: Domanda estemporanea: visto che siete apprezzatissimi anche da chi non ascolta rap in qualità di autori di testi e arrangiatori, avete mai pensato di scrivere/comporre per altri generi musicali?

D.M.: Certo, ce lo siamo detti mille volte: la musica è musica. Anzi, ringrazio le persone che ci ascoltano e vanno al di là dei clichè, quelli che non ci amano solo perché facciamo hip hop e che non ci odiano solo perché facciamo hip hop.

R: Anche io non avrei problemi a farlo, ma per ora ho preferito concentrarmi sui nostri dischi: non ho pregiudizi, ma forse per me non è ancora arrivato il momento di sperimentare questa cosa.

B: Questo EP è l’anticipazione di un progetto più grosso o di fatto è questo EP ad essere il progetto più grosso?

R: L’EP è già il nostro progetto più grosso: crediamo fermamente che ci sia un mondo da scoprire all’interno di queste cinque tracce, perciò vogliamo lasciare alla gente il tempo di metabolizzarlo. Anzi, visto che è uscito d’estate, in un periodo particolare, consigliamo a chi non avesse ancora avuto il tempo di ascoltarlo di recuperarlo adesso e di venire a sentirci live, perché è soprattutto in quella dimensione in cui potete capire davvero chi siamo. Quello di adesso è un live scarno: un microfono, un giradischi e alcuni visual proiettati dietro di noi. Perfetto per arrivare alla nostra essenza, insomma. Detto questo, l’EP uscirà anche in forma fisica, in questo caso in vinile, che era un nostro desiderio da parecchio tempo. Non abbiamo ancora una data precisa, ma non manca molto.

D.M.: Dopodiché c’è il mistero, neanche noi sappiamo esattamente quale sarà la nostra prossima mossa.