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Anagogia: l’intervista

03-05-2015 Marta Blumi Tripodi

Anagogia: l’intervista

Abbiamo conosciuto Anagogia nel dicembre 2013, in occasione di un’intervista: aveva vent’anni compiuti da poco e aveva appena firmato un contratto con la Warner, diventando ufficialmente il primo rapper italiano nella scuderia della major. Un acquisto significativo anche a livello simbolico, perché tra tutti gli mc già votati al mainstream la scelta era caduta su un nome molto rispettato dalla scena underground, con un suono senza compromessi e un grande amore per la cultura hip hop in senso stretto. Il suo album di debutto, Pillole, sarebbe dovuto uscire di lì a un mese: era stata perfino già fissata la release date. Dopodiché è successo l’imponderabile: il disco, semplicemente, non è mai uscito. Quando si firma un contratto, infatti, le scelte strategiche come la data di uscita di un progetto si devono ovviamente concordare con l’etichetta, che se ritiene non sia il momento giusto e/o ha altre priorità può ovviamente arrogarsi il diritto di ritardarla, o addirittura cancellarla del tutto (succede spesso agli artisti emergenti, ma è successo perfino a un solidissimo Q-Tip con l’album Kamal the Abstraact, per esempio). Insomma, una situazione spiacevole da tutti i punti di vista. Per fortuna, però, questa è una storia a lieto fine: Pillole è finalmente uscito settimana scorsa, e nonostante la lunga attesa non suona affatto vecchio, anzi: è più fresco di molti dei prodotti concepiti negli ultimi mesi, sia dal punto di vista dei testi che dei beat. Abbiamo approfittato del suo press day per incontrare un’altra volta Anagogia e parlare di passato recente, presente e futuro.

Blumi: La prima domanda è abbastanza scontata…

Anagogia: Ti prego, non chiedermi da dove viene Anagogia! (ride) Oggi me lo hanno chiesto talmente tante volte che sto pensando di preparare una risposta preregistrata, così quando qualcuno me lo chiede mi limito a schiacciare play!

B: No, tranquillo, quello lo abbiamo già appurato allo scorso giro! Quello che volevamo sapere, invece, è ovviamente il motivo del ritardo di quest’album: come mai, pur avendo già una release date per il 2014, è stato rimandato a data da destinarsi?

A: Per scelte dell’etichetta, diciamo. L’uscita è stata rimandata varie volte, perché si cercava di affiancarla ad eventi importanti che potessero portare un po’ di pubblicità alla cosa. Il momento giusto, però, sembrava non arrivare mai, cosa che cominciava a logorarmi un po’. A un certo punto ho fatto un discorso chiaro: è inutile continuare a rimandare, l’importante è che esca. Ci siamo accordati per fine aprile, e ora eccoci qui. Due anni, però (il disco, ovviamente, era stato terminato molto prima della release date dello scorso gennaio, ndr), sono davvero tanti. È stato un po’ snervante. Credo che mi sia servito per crescere come persona, però: mi sono beccato subito una bella mazzata ed essendo sopravvissuto adesso sono tranquillo, so che qualunque cosa succeda posso affrontarlo! (ride)

B: Come hai trascorso quest’anno abbondante di attesa? Hai registrato materiale nuovo?

A: Certo, io mi porto sempre avanti. È successo anche per Pillole: una volta convocato in Warner e firmato il contratto non ho neppure dovuto mettermi a scrivere l’album, ce l’avevo già pronto. L’ho solo modificato e migliorato a modello qualitativo, ri-registrandolo in uno studio più serio, quello di Bassi Maestro. Non riesco a restare con le mani in mano senza fare musica, quindi durante questa pausa forzata mi sono dato da fare e ho pubblicato tre EP, Identity, Memento e Isla Malinconia. È stato strano vedere la mia musica nuova uscire prima di quella vecchia, mi ha un po’ scombussolato. Però se devo essere onesto al momento non sono assolutamente proiettato verso una nuova uscita: preferisco pensare a Pillole.

B: A molti artisti un disco suona già vecchio prima ancora che esca, perché per scriverlo e registrarlo ci hanno lavorato in maniera talmente ossessiva che arrivato il giorno della pubblicazione ne sono quasi stufi.

A: Sicuramente anch’io avevo quell’angoscia: avevo paura che suonasse vecchio, a me ma soprattutto agli altri. Per un po’ ho anche pensato di riaprire il progetto e aggiornarlo, però poi mi sono reso conto che era venuto esattamente come lo volevo e non aveva senso modificarlo. Non avrebbe più avuto lo stesso significato. Ci ho pensato a lungo e ho capito che un buon disco non ha data di scadenza, tant’è che molti di noi scoprono e apprezzano alcuni album classici anche a molti anni di distanza dalla loro pubblicazione.

B: Mi spieghi il concetto dietro a Pillole, sia come album che come title track? Vedo che te lo sei anche tatuato… (sull’avambraccio di Anagogia c’è la scritta “Pillole” e il disegno di alcune capsule tipo medicinali, ndr)

A: La parola “pillole” è fondamentale per quest’album, perché prima ho pensato al titolo e poi ho voluto costruirci attorno tutto il resto. Stavo attraversando un periodo parecchio complicato, e molte persone in periodi del genere scelgono di affidarsi a uno psicologo o uno psichiatra. In fin dei conti, però, non si tratta di una chiacchierata e basta: di solito torni a casa con la ricetta di un calmante, uno psicofarmaco, un antidepressivo, per aiutarti a superare il momento. A me queste cose fanno molta paura, e difatti ho sempre cercato di evitarle. Ho chiamato il mio disco così perché per me i pezzi di quest’album hanno davvero avuto l’effetto di uno psicofarmaco: la musica è sempre stata la mia valvola di sfogo più grande.

B: Il fatto che quest’album sia un viaggio molto personale si sente: ti basi molto sulla tua esperienza, quando scrivi?

A: Sì, esatto. Per me la musica è personale, mi sarebbe impossibile scrivere una strofa senza basarmi sulla mia vita. Al limite ho cercato di usare delle metafore, come in The devil’s advocate, in cui ho preso un film e l’ho ribaltato sulla mia vita.

B: Devil’s advocate, in effetti, oltre ad essere parecchio vissuto fa un po’ impressione: quando lo hai scritto avevi meno di vent’anni, ma sembra che a parlare sia uomo che ha il doppio della tua età.

A: Credo sia molto istintivo. Parecchi brani sono stati scritti di getto, in poco tempo, perché sono sfoghi relativi a un certo momento e a un certo stato d’animo: se avessi abbandonato un testo a metà non sarei più riuscito a scrivere nello stesso modo. Forse è proprio questo che distingue Pillole dagli altri miei EP, in cui non mi facevo problemi a prendermi una pausa tra la scrittura della prima e della seconda strofa.

B: Il tuo nuovo singolo, invece, è Quattro

A: Sì, è un brano a cui tengo davvero molto. Cerca di differenziarsi da tutto quello che c’è in giro adesso, in cui spiego che in questo mondo in cui tutti si ammazzerebbero per salire sul podio, io cerco di restarmene di al quarto posto senza rompere le palle a nessuno. Mi sta benissimo così. (ride)

B: La maggior parte delle produzioni sono curate da te personalmente. Qual è la direzione che volevi intraprendere?

A: Ho scelto di fare quest’album in uno dei periodi più critici del rap italiano, secondo me. E proprio questo volevo fare: un album di rap italiano. Oggi, bene o male, tutto ciò che era malvisto quando io ho iniziato a lavorarci è stato assorbito o rigettato del tutto dalla nostra scena rap. La trap, ad esempio, è stata accettata; la dubstep invece no. Io ho cercato di inserire un pochino entrambe – anche se la dubstep, ad esempio, l’ho messa in un secondo momento, quando ho deciso di avere dei featuring. Però volevo che l’album avesse un impronta prettamente rap, perché avevo l’impressione che si stesse un po’ perdendo il concetto. Oggi, per fortuna, diversi artisti stanno cercando di tornare alle origini, che era un po’ la stessa cosa che volevo fare io due anni fa.

B: Che cos’è oggi l’originalità nel rap italiano, secondo te?

A: Il mio punto di vista è che chi segue le mode non le crea, perciò cerco sempre di distaccarmene. Il rap italiano lo ascolto molto, e non mi piace chi invece fa rap ma dichiara di non ascoltarlo, o di ascoltare solo old school; è un po’ come dire “Io gioco a pallone ma non mi alleno”. Alcuni, probabilmente, riescono ad arrivare ad ottimi risultati anche facendo così, ma io personalmente non credo che ce la farei. Il rap degli altri è sempre stato uno stimolo per andare avanti e trovare nuove idee. Se io fossi appartenuto alla generazione di Neffa, per dire, non so se sarei riuscito ad inventare il rap italiano, perché mi sarebbero mancati gli input per inventarlo da zero. Io ho bisogno di conoscere tutto il rap, e poi, basandomi sulle conoscenze che ho, posso trovare un modo di farlo meglio di tanti altri.

B: Vale lo stesso discorso per l’ormai celebre “Io faccio rap, ma non me ne frega un cazzo dell’hip hop”, cosa di cui molti si vantano di questi tempi?

A: Non lo so. L’hip hop in Italia lo vivono in pochi. Io sono un grande appassionato di elettronica, oltre che di rap, e credo quindi che magari si potrebbe avere qualcosa da ridire sui miei ascolti, che sono poco rap, ma non sulla mia vita, che invece è molto hip hop. Molti, invece, fanno rap, ma non sanno neanche cosa sia l’hip hop. Per me ciascuno può fare quello che vuole, ma poi non deve offendersi se si critica la sua attitudine inesistente. Se vuoi fare il rap, secondo me, devi farlo al 100% della sua espressione, quindi all’interno del contesto dell’hip hop. Ma per fare bene il rap non bisogna neanche trascurare la musica in generale: io ho sempre voluto fare musica, innanzitutto. Se non avessi ascoltato così tanta musica in vita mia, probabilmente il mio rap sarebbe stato schifoso.

B: Ecco, a proposito: nella precedente intervista che ti avevamo fatto ti avevamo chiesto se, essendo tu così giovane, la musica era il tuo unico progetto o se avessi un piano B nel caso le cose non fossero andate come previsto. Tu ci avevi risposto che se non fosse andata bene con il rap saresti passato a un altro genere musicale, perché la musica era l’unica cosa importante per te. A distanza di tempo, dopo essere rimasto intrappolato per un po’ nelle maglie della burocrazia discografica, la pensi allo stesso modo?

A: Assolutamente. Non in modo paraculo, ovviamente: mi piacerebbe occuparmi anche di altri generi musicali a prescindere dal fatto che mi vada male o bene col rap. Una cosa che mi piacerebbe un sacco, per dire, è farmi un side project all’insaputa di tutti, sotto un altro nome e senza svelare la mia faccia. E poi magari rivelare che sono io dopo dieci anni di carriera nel rap, per sorprendere la gente! (ride)

B: In conclusione: Pillole è finalmente fuori. Ora che succede?

A: Voglio portarlo in giro dal vivo, perché a questo punto ho un sacco di voglia di suonare! Dopodiché cercherò di incanalare la nuova musica che sto già facendo in un nuovo album, perché ho bisogno di rimettermi all’opera su un percorso serio.