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Luché: l’intervista

08-12-2014 Marta Blumi Tripodi

Luché: l’intervista

Alcuni artisti debuttano una volta sola, altri si reinventano in maniera così radicale che lo fanno due volte. E’ il caso di Luché, che dopo una gloriosa carriera nei Co’Sang, che lo aveva portato ad esprimersi ai massimi livelli dell’hip hop di casa nostra, dopo lo scioglimento del gruppo ha deciso di proseguire la sua carriera da solista e in un’altra lingua, abbandonando il dialetto e concentrandosi principalmente sull’italiano. Una doppia difficoltà che avrebbe probabilmente affossato il 90% dei suoi colleghi, ma non lui, che ha dimostrato con testardaggine e coerenza che la strada da perseguire era giusta e sensata. L2 è un lavoro pensato e maturo, che fa ben sperare per il futuro, perché è evidente che Luché non è ancora arrivato a esprimersi al massimo delle sue potenzialità, in questa nuova veste: il miglioramento tra il suo primo lavoro L1 e quest’ultimo è nettissimo, perciò è probabile che il prossimo sarà ancora migliore. Lo abbiamo incontrato a Milano per parlare di lui, del collettivo Roccia Music e di molto, molto altro.

Blumi: La prima domanda è quasi d’obbligo: hai avviato la tua carriera solista da parecchi anni ormai, ma per tutti il tuo nome è ancora sinonimo di Co’Sang. Non ti dà fastidio, ogni tanto, il fatto che tutti ti associno a un’esperienza che per te è ormai parte del passato?

Luché: No, assolutamente. I Co’Sang hanno fatto la storia del rap napoletano, abbiamo costruito qualcosa che resterà per sempre nel cuore della gente, quindi capisco che per chi ci ascoltava sia difficile staccarsi da quell’immaginario e affezionarsi a qualcosa di nuovo. Per me non c’è problema, anzi: mi fa piacere che ci sia ancora tutto questo interesse per quello che abbiamo fatto in passato.

B: Parlando appunto della tua carriera solista, attualmente sei fuori con l’album L2, che è il seguito di L1. Che rapporto intercorre tra questi due album? Possiamo considerarli due metà di un intero?

L: No, si tratta di due capitoli musicali diversi. L1 è un disco istintivo, che ho chiuso nel giro di tre mesi: dopo che i Co’Sang si sono sciolti sentivo un gran bisogno di fare uscire qualcosa di nuovo, anche perché eravamo fermi da un po’. L2, invece, è un album ragionato dalla prima all’ultima traccia. In un certo senso sono due progetti che si controbilanciano, entrambi molto validi ma per motivi diversi. Credo che L2 sia un po’ più completo, però: mi sono espresso meglio, sia a livello di scrittura che di argomenti.

B: A proposito di questo, un aspetto su cui senz’altro hai guadagnato sicurezza è la scrittura in italiano: in questo tuo secondo album si nota un netto miglioramento…

L: È sicuramente così. Per passare da una lingua all’altra ci vuole un po’ di pratica, e nell’ultimo anno – anzi, soprattutto negli ultimi mesi – ho notato che a furia di stare in studio e lavorarci su, mi scioglievo sempre di più e diventavo più fluente. Mi è sempre venuto abbastanza naturale (non è mai stato come scrivere in una lingua straniera, per capirci), però la difficoltà deriva dal fatto che noi siamo abituati a parlare in un altro modo, nella nostra vita quotidiana. Tra l’altro una cosa è scrivere una strofa, un’altra è l’esecuzione di quella strofa. La cadenza del dialetto si sente molto: c’è bisogno di tempo per ripulire il proprio flow.

B: Tutti i brani del tuo album sono molto sentiti e viscerali, ma anche molto cupi: non è propriamente musica per una giornata di sole, insomma…

L: In realtà io sono una persona molto solare, ma non sempre riesci a trasformare in musica tutti i tuoi momenti. Un po’ perché usi la musica per sfogarti, un po’ perché non ti va di fare un pezzo allegro, un po’ perché sei più ispirato da un beat dark piuttosto che da uno più brillante… Anche i miei pezzi più spacconi (tipo Che vuoi da me che è pieno di punchline) sono abbastanza scuri, come mood. È il mio stile, almeno nella musica. Nella vita, ovviamente, sono molto diverso: mi piace ridere e scherzare e ho anche un lato romantico, tant’è che in ogni disco c’è almeno una traccia dedicata a una ragazza. Prima o poi mi piacerebbe fare un album in cui mi diverto un po’ di più, comunque: andando avanti capisco tante cose e voglio spingermi oltre i miei limiti.

B: Ecco, parlando di beat: nella scelta delle sonorità sembri voler spaziare un po’ di più rispetto ai tuoi colleghi di Roccia Music, che si mantengono su atmosfere più minimal e contemporanee. Concordi con questa analisi?

L: Considera che alcuni artisti di Roccia Music debuttano adesso sul mercato discografico, io faccio musica da 15 anni. È ovvio che sia più ferrato di loro, quando si tratta di strutturare un album: ho le idee molto chiare su come deve suonare, quante tracce devono virare al melodico, quante invece devono essere più pesanti e via dicendo. Oltretutto nasco come producer, quindi chiaramente mi occupo molto da vicino di questo aspetto: per me il sound è fondamentale per trovare l’ispirazione per scrivere. Questo tipo di cura per il dettaglio è una cosa che viene con l’esperienza, credo. Per un ragazzo nuovo è difficile entrare in quest’ottica, a meno che non abbia un manager che lo segue passo passo e lo indirizzi in quello che deve fare. Era successo anche a noi con il primo disco dei Co’Sang: suonava tutto simile, perché in quel momento volevamo esprimere soltanto un certo tipo di emozione. Con il tempo, però, abbiamo provato a sperimentare un approccio diverso e abbiamo capito come realizzare un album completo in tutte le sue sfaccettature.

B: La domanda, a questo punto, sorge spontanea: essendo tu un produttore, perché ti sei affidato ad altri beatmaker?

L: Oggi fare un beat non è più soltanto loopare un campione e metterci sotto delle batterie: io non so suonare, strimpello ad orecchio e basta, perciò ho bisogno di qualcuno che mi possa arrangiare il pezzo per farlo arrivare al livello successivo. Magari l’idea e l’input partono da me, ma poi c’è qualcun altro che costruisce la strumentale, magari suonando un giro di piano o un riff di chitarra che vadano nella direzione giusta. Nella vita non si può fare tutto da soli: io oggi mi devo dedicare ai testi, voglio incanalare le mie energie in una sola direzione. Per tutto il resto mi faccio aiutare da qualcun altro. È bello avere un team con cui scambiare idee.

B: Quanto influisce il tuo trasferimento a Londra sul nuovo corso della tua musica, tra l’altro?

L: Questa domanda mi fa sempre un po’ sorridere, perché io sono a Londra dal 2002. Anche quando ero nei Co’Sang vivevo lì, quindi, anche se facevo un po’ avanti e indietro da Napoli. Diciamo che è più una questione di mentalità. Ai tempi ero molto più legato alla mia realtà di quartiere, perciò senz’altro anche la mia musica rifletteva questo: volevo raccontare la situazione da cui fuggivo. Insomma, nella mia musica parlo più di quello che ho dentro che di quello che mi circonda, indipendentemente da dove abito.

B: Com’è la tua esistenza quotidiana in Inghilterra?

L: Io e Corrado (anche lui membro di Roccia Music, ndr) abbiamo un ristorante. Sono molto presente in questa attività, però non sempre fisicamente: abbiamo un ottimo team e ci alterniamo per seguire la situazione, che ovviamente ci prende molto tempo. A parte questo, faccio musica e ultimamente stiamo anche lavorando a una linea d’abbigliamento. Insomma, le mie giornate sono composte da tanti aspetti diversi.

B: Tornando per un attimo all’album, L2 ha avuto ottimi riscontri di pubblico: per rendersene conto basta guardare semplicemente lo streaming online delle tracce del disco, che hanno almeno 50.000 ascolti l’una…

L: Il disco non è stato pensato per sfondare in classifica, anche perché per le prime due settimane dalla sua uscita è stato in free download. Oltretutto, abbiamo stampato le copie fisiche solo per i fan che magari avevano piacere di incontrarci e farsele firmare durante gli instore. Io volevo che L2 arrivasse a tutti, e credo che abbiamo centrato l’obbiettivo: soltanto nella prima settimana è stato scaricato 15.000 volte e vedo che molti ragazzi lo stanno scoprendo anche a distanza di mesi. Mi fa davvero molto piacere: c’è ancora molto da fare, ma per quanto mi riguarda è un ottimo risultato.

B: A proposito di instore, per i rapper della tua generazione sono un’esperienza relativamente nuova: che sensazione ti dà?

L: È una soddisfazione enorme, perché ti rendi conto che tutto il sudore che hai riversato in un disco è stato apprezzato. A maggior ragione perché, per come sono fatto io, all’inizio sono sempre scettico, cerco di rimanere coi piedi per terra: all’instore di Napoli, pur sapendo che giocavo in casa, ero convinto che ci sarebbero state massimo 50 persone. Quando poi sono arrivato lì e ho visto che ce n’erano almeno 500, tutte in fila per incontrarmi, è stata una vera sorpresa. Anche a Roma e Milano l’affluenza è stata ottima. Erano i miei primi instore fuori dalla Campania: vedere quanta gente apprezza la mia musica anche lontano da casa mia mi dà motivo per andare avanti.

B: Ricordi ancora la primissima volta che hai suonato fuori dalla Campania?

L: Non ricordo la prima, però ricordo vari episodi, alcuni abbastanza tristi… (ride) Ad esempio una data dei Co’Sang in un centro sociale a Trieste: il posto era vuoto, com’era ovvio che fosse, non era proprio il contesto adatto a noi. La prima volta che abbiamo suonato a Milano, invece, eravamo al Rolling Stone e ci ignoravano quasi tutti, c’erano solo i Club Dogo in prima fila a supportarci! (ride) Per fortuna poi le cose sono cambiate.

B: Cambiando argomento, come procede l’esperienza Roccia Music e come ti trovi con i tuoi colleghi di crew, la maggior parte dei quali sono molto più giovani di te?

L: Se devo dirti la verità la differenza d’età con loro non la sento, anzi, mi sento io stesso agli inizi. La mia carriera di prima è un po’ un capitolo a parte, tant’è che molti ragazzini che mi seguono oggi i Co’Sang quasi non li conoscono, conoscono solo Luché. Con gli altri di Roccia Music mi trovo davvero benissimo: ci sentiamo spesso, ci confrontiamo, ci vediamo ogni volta che capita l’occasione. Ieri, per esempio, ero da Marracash e abbiamo ascoltato insieme il suo nuovo disco, che sarà una bomba. A livello di percezione, comunque, so che c’è ancora tanto da fare: dobbiamo ancora imporci, anche perché il nostro sound è molto diverso da quello a cui sono abituati gli italiani. Forse finora siamo stati un po’ fraintesi, anche per una questione di estetica… L’Italia non è ancora pronta per queste cose. Forse è meglio concentrarsi su quello che sappiamo fare meglio: scrivere. Siamo tutti rapper che, ciascuno a suo modo, sono molto forti sulla scrittura, quindi per un po’ è meglio accantonare lo studio del look e pensare a fare crescere la nostra musica.

B: La domanda ti tocca d’ufficio perché sei il primo esponente di Roccia Music che intervistiamo dopo il “fattaccio”: cos’è successo davvero a quel famoso concerto romano di Villa Ada che avete annullato quest’estate (ne parlavamo qui, ndr)?

L: Considera che arrivavamo tutti da sbattimenti pazzeschi: io e Corrado, ad esempio, avevamo fatto più volte avanti e indietro da Londra per le prove e poi eravamo volati a Roma per suonare. Mettere insieme uno show con così tante persone non è facile, soprattutto per dei perfezionisti come noi. Avevamo fatto i salti mortali e avevamo speso un sacco di soldi di tasca nostra per poterci preparare al meglio. La data nasceva già male, basti pensare che era la stessa sera di Vasco Rossi all’Olimpico e quindi la concorrenza era agguerrita; in più arrivati in città ci siamo resi conto che non c’erano locandine, flyer, manifesti per strada, niente di niente. Ci avevano detto che avevano già venduto 300 biglietti in prevendita, però, perciò eravamo tranquilli. Una volta sul posto, invece, scopriamo che nel pubblico ci sono una quarantina di persone appena, e quindi gli organizzatori erano abbastanza maldisposti, perché se avessimo suonato avrebbero dovuto pagarci un cachet molto alto (considera che eravamo una decina di persone). Un po’ per quello, e un po’ perché ci sembrava assurdo suonare in quella situazione dopo tutti i sacrifici che avevamo fatto, abbiamo deciso di annullare. È sicuramente una scelta criticabile: molti rapper underground hanno sfruttato l’occasione per ribadire che loro suonerebbero anche davanti a una sola persona, però ho come la sensazione che già ci odiassero da prima e abbiano approfittato di questa storia per scrivere qualche frecciatina in più su Facebook. Per qualche giorno non si è parlato d’altro e un sacco di siti e blog ci hanno dato addosso, ma quello che non capiscono è che tutti abbiamo suonato davanti a poche persone, me compreso, e nessuno di noi ne ha mai fatto un dramma. Stavolta, però, la situazione era diversa: se suoniamo a Roma tutti insieme, dove normalmente il solo Achille Lauro fa 1000 ingressi, e ci sono meno di 50 paganti, è evidente che qualcosa è andato storto nella promozione e che non ha senso bruciare così l’occasione. Ci è dispiaciuto un sacco, ma ci sembrava più giusto così: alla fine gli spettatori hanno avuto indietro i soldi del biglietto e i promoter si sono risparmiati una gran bella cifra. E noi saremo più che felici di riorganizzare la data più avanti, con una promozione migliore. Non capisco tutto questo scandalo, sinceramente. Con il senno di poi, senz’altro saremmo potuti uscire sul palco solo per incontrare i fan, però sul momento eravamo talmente incazzati che quasi non ragionavamo…

B: Forse dall’esterno è stata percepita più come una questione di soldi e mancati introiti: anche perché, come dicevi tu, il cachet che dovevano pagarvi per quel concerto era molto alto (le cifre che sono circolate sono in linea con il mercato dei live pop e rock italiani, ma nel rap le raggiungono in pochi)…

L: Ma non è stata una questione di soldi, tant’è che noi alla fine non abbiamo preso un euro, anzi, tra prove e spostamenti siamo andati in perdita. Ripeto, Roma per noi era una piazza troppo importante per buttarla via così: secondo me non era giusto suonare in quelle condizioni. Capisco chi dice che bisogna suonare sempre, ma solo fino a un certo punto. Se il promoter non fa il suo lavoro non ti devi svendere, soprattutto se ti consideri un professionista. È la tua carriera che rischia di risentirne. Pensa se avessero fatto una foto di Roccia Music con tre persone sotto il palco: sarebbe diventata virale e avrebbero detto che eravamo un flop, quando in realtà con una data promossa bene di solito facciamo il pienone. E ci avrebbero criticato e deriso allo stesso modo, solo che stavolta si sarebbero attaccati a qualcos’altro.

B: Passando ad altro, una curiosità: negli ultimi mesi Gomorra è diventata una serie di culto e la vita da cui siete fuggiti, quella che avete sempre denunciato con crudezza nelle canzoni dei Co’Sang, viene mitizzata da milioni di telespettatori, spesso giovanissimi. Cosa ne pensi?

L: L’ho scritto anche in un verso di E’ cumpagn’ mie, un pezzo in dialetto che ho pubblicato un paio di mesi fa: ironizzando, dico “voi conoscete solo gli attori, noi conosciamo quelli veri”. Per noi la camorra non è un film, è una realtà pesante, dura. Siamo cresciuti a due passi da Scampia, insieme alle persone da cui gli autori di quella fiction hanno preso spunto per la costruzione dei personaggi. Ultimamente sembra che per gli italiani Gomorra sia diventata un gioco: tutti che citano a memoria le battute, affascinati dalla vita criminale… Però la colpa non è degli italiani, la colpa è dello Stato, che non fa niente per migliorare la situazione delle nostre periferie. Chi cresce lontano da certi ambienti coglie solo gli aspetti più superficiali della serie, ovviamente, ma non è colpa dello spettatore milanese o di quello romano se le cose non cambiano, è colpa delle istituzioni.

B: Ultimo ma non ultimo: progetti futuri?

L: Suonare in giro (ad esempio a Milano il 12 dicembre, a Benevento il 19 e il 26 a Roma, tutte le date sono in continuo aggiornamento su Facebook). A parte questo, stiamo già cominciando a lavorare al mio prossimo disco: spero sia pronto per la primavera 2015.