HOTMC

Hyst: l’intervista

16-09-2014 Luca Scremin

Hyst: l’intervista

Il 5 settembre è uscito “Mantra”, il primo album che Hyst pubblica da “Alto”, datato 2010. Di carne al fuoco ce n’è veramente tanta, per cui ci siamo recati negli uffici di Smc Italia per parlarne proprio con l’artista di Blue Nox.

Luca Scremin: Come recita il booklet, Mantra è “il pensiero che agisce”. È senz’altro un modo azzeccato di sintetizzare il tuo lavoro. Quando ti è venuta l’idea di chiamare così il disco?

Hyst: All’inizio ovviamente ho attraversato una fase random in cui pensavo ai titoli più diversi. Volevo qualcosa che facesse capire che si tratta di un disco personale; qualcosa che desse risalto all’idea di responsabilità, una caratteristica fondamentale del mio approccio al rap. Responsabilità nelle parole, nel messaggio, nel tipo di contenuto. Volevo che il titolo fosse composto da una parola sola, perchè avevo già un’idea grafica in mente, ci tenevo a un’idea di unitarietà forte. Il progetto grafico è partito pensando al cerchio, un po’ per scherzare sull’abuso di triangoli nel rap (con l’ossessione per gli Illuminati), un po’ perchè il cerchio rimanda allo zen, ai mandala tibetani, a tanti elementi orientali come la meditazione, l’infinito, l’assenza di gerarchia (a differenza del triangolo). “Mandala” era un termine che definiva tutto questo, ma il suo significato proprio non era abbastanza forte. Invece “Mantra” è praticamente una traduzione orientale di rap, se la vogliamo mettere così. Contiene quell’informazione in più. Non indica solo quella “parola che diventa azione”, ma implica che è la parola di per sé ad avere questo potere. Quando la parola viene detta, scritta, registrata, riprodotta è potente. Diventa sempre un’energia, indipendentemente che uno selezioni le parole con cura o meno. Dichiarare questa cosa nel titolo mi rende responsabile. Io potrei fare un disco e chiamarlo “A cazzo di cane” e puoi metterci dentro di tutto. Io chiamo il mio disco così perchè so che le parole contano e vorrei che questo si capisse dall’ascolto dei pezzi. L’importanza che do alle parole si intuisce anche nel fatto che, al di là dei contenuti, la mia attenzione è al cento per cento anche sulla scelta di non usare parole e combinazioni brutte, esteticamente basse. E non mi riferisco al linguaggio di strada, che è più asciutto ma ha il suo perchè. Voglio distanziarmi dal brutto.

LS: Se dovessi provare a raccogliere tutto il disco, che è densissimo, in un concetto, sarebbe “La forza di dire le cose”. Permea tutti i pezzi principali del disco: “Adesso scrivo”, “Adesso parlo”, “Sempre”, “Cassandra”. Insomma, ci vuole forza per dire le cose, nei rapporti personali ma anche quando uno è una figura “pubblica” come può essere il cantante. Quanto è difficile? Quali sono le cose che vorresti la gente dicesse di più?

H: In generale vorrei che la gente dicesse la verità. Chi mi conosce personalmente sa che ho grosse difficoltà a non dire la verità. Anzi, quel che ho dovuto imparare per convivere col mondo è stare un po’ più zitto. Ma come dico in “Sempre”, “Ho sempre detto tutto in faccia a chiunque”. Quindi se vengo interpellato, purtroppo quello che arriva può essere una doccia gelata (ride). Ritengo semplicemente che la verità sia più bella. L’effetto dirompente di sentirsi dire una cosa vera, per quanto sorprendente e raggelante, lo preferisco. Non siamo abituati, nei ritmi della società di verità ce n’è poca. Piuttosto che pensare di essere una persona adeguata e “al posto suo”, preferisco essere quella persona di cui uno si ricorda anche solo per quanto ci è rimasto male quando gli ho detto una determinata cosa. In effetti questa forza è la cosa che governa il disco. Quante volte si dice “sempre” e non lo intendi? Una parola così assoluta che viene usata di frequente non ha più nessun senso. Negli scherzi dei pezzi sentimentali, che per loro natura solo più tranquilli, meno pretenziosi c’è comunque la volontà di raccontare dei rapporti personali in cui si dicono delle cose più nette, più chiare. Ne “L’arte di essere felici” tutto ruota attorno al fatto di dirsi “Ti amo”. Viene detto una volta in ogni strofa. Nella maggior parte dei pezzi rap che sento recentemente, nessuno dice “ti amo”, nessuno si fa carico di questa responsabilità. Ci sono delle storie, si soffre, si scopa, ma nessuno fa quella scommessa lì che è ovviamente molto più impegnativa. In “Quando è finita” le dico scherzosamente “Prima che vai via per sempre fammi un film porno”. Sono cose che nelle relazioni si dicono, nelle canzoni meno.

LS: “Per ogni 100 che ne tocco forse ne salvo un paio, fosse diverso a ogni concerto nascerebbe un riot”. L’idea è fare musica per cambiare le persone, per significare qualcosa di importante nella loro vita. Come si fa, in un’epoca dove tante persone percepiscono la musica come un accessorio?

H: Per la convinzione morale che sia più giusto così, innanzitutto. Sono sempre stato additato come moralista, fin da piccolo (ride). Non credo di esserlo, perchè so dentro di me che non dico certe cose per correggere gli altri, per presunzione o per seguire una regola. La maggior parte delle volte che mi esprimo in questo senso è perchè mi piace armonizzare le volontà degli altri. Penso che puntare tutto su una musica che significhi qualcosa sia il proposito migliore per la totalità delle persone. Integrata alla questione morale c’è quella della bellezza. Non si può vivere senza bellezza. Ovviamente è un sacrificio da un punto di vista economico, perchè portare avanti questo discorso non vende. E non è una questione di genere: si può trovare bellezza anche nei pezzi “da club”.
Nella mia vita di fruitore ho sempre trovato più ispirazione in personaggi come Bob Marley, John Lennon, Ani DiFranco, Lauryn Hill. Mi hanno sempre comunicato più forza, bellezza, autenticità, valore, anche come personaggi storici. Se devo farmi due calcoli, la questione finale per me è: abbiamo un periodo di tempo molto limitato sulla Terra. Usare questi anni per fare due soldi mi pare una perdita di tempo clamorosa. Preferisco usarli in un modo che mi fa sentire di essere utile: pensare che quando il tempo sarà finito io guarderò indietro e saprò di aver portato bellezza, mi farà chiudere gli occhi sereno. Questa convinzione basta a risolvere ogni problema. Non cerco tanto di “rimanere nella storia”, perchè avere un’ambizione del genere è davvero difficile, ma se a ricordarmi fossero anche le poche persone che ho più care, basterebbe. L’altro giorno ricorreva la morte di Stefano Rosso, il padre di Jesto. Stefano con tutti i suoi problemi umani, comportamentali (dava di matto)…è una persona che quando se n’è andato, chi gli ha gravitato attorno ne ha sentito la mancanza. E non la mancanza dei suoi talk show, ma la mancanza umana dei momenti di grave allegria, del coinvolgente divertimento. È questo ciò a cui mi riferisco.

LS: “Essere o non essere” è uno dei pezzi più efficaci del disco, in cui tu, Musteeno e Willie Peyote smontate pezzo per pezzo il modo di ragionare e fare musica di quelli che ancora si ostinano a copiare gli americani con lo stampino, a fare “il rap di soldi e puttane”. Secondo te da cosa è data la persistenza di questo modo di approcciarsi al genere, dato che francamente mostra tutti gli anni che ha e non offre mai nulla di nuovo?

H: Come ho già detto, un pezzo club può essere una cosa bellissima. Se oggi vado a ballare in una discoteca dove suonano musica black, ci sono tanti pezzi che ancora oggi rimangono coinvolgenti, divertenti, al punto che non c’è bisogno di scadere e vendere merda per far ballare. Se pensi a Soul Train ti rendi conto che non c’è bisogno del twerking. Ma non per tornare per forza al passato, anche in passato ci sono stati picchi imbarazzanti. Ancora oggi se sento un pezzo club ben fatto io ho una forte invidia, perchè non è facile far ballare la gente. Un po’ più facile lo diventa se dici cose stupide, secondo quel meccanismo molto infantile per cui quando hai quattro anni e dici “cacca” gli altri ridono. Le prime hit dei Black Eyed Peas non avevano bisogno di dire cazzate. Erano produzioni mostruose e funzionavano. Come si parla in un pezzo club dipende dalla cultura del paese in questione, e non devo certo dirtelo io che veniamo da vent’anni di berlusconismo. Per quanto riguarda la persistenza di pezzi inutili, il motivo principale è secondo me la convinzione malguidata, presente soprattutto nei media e nei discografici, che la merda venda. Non saprei dire quando questa convinzione è nata. C’è stato un momento, forse negli anni Settanta, per opporsi all’onda del cantautorato visto che le major non riuscivano a produrre i “loro” cantautori. Non saprei. Ma si è creato questo binomio, nell’ambito dell’industria musicale e non solo, per cui il mercato funziona in due modi: bisogna dare al pubblico quello che vuole, e il pubblico vuole la merda. Una di queste affermazioni è completamente falsa.

LS: Parlando di queste cose, mi viene spontaneo chiederti del rap italiano e del suo rapporto col mainstream. Tempo fa leggevo un articolo di Emiliano Colasanti, in cui si parlava di una colonizzazione al contrario: l’hip hop italiano, quando arriva “in alto”, si uniforma in maniera spaventosa al pop da classifica che già spopola in Italia, invece di cercare di essere l’agente di una contaminazione. Tu come te lo spieghi? Come si inverte una tendenza del genere?

H: È molto elementare: arrivati a un certo livello di popolarità, il problema diventa mantenerla. E non puoi fermarti, perchè deluderesti una serie di aspettative e questo sarebbe problematico. Quindi ti trovi a cercare di fare tuoi i criteri di quel mercato, di quell’industria. La cosa triste è che non esistono dei maestri di musica, in quell’industria. Michael Jackson aveva Quincy Jones, non è un caso che Michael Jackson abbia fatto la storia del pop senza scadere mai. Tu ricordi un disco brutto di Michael Jackson? Ovviamente lì c’entra il talento di una stella rara, ma c’entra anche il fatto che Quincy Jones da bambino sia stato circondato dai migliori jazzisti, crescendo a contatto con un’epoca musicale di purezza indiscussa. Nella discografia italiana mancano figure competenti che scardinino i progetti dei piani alti, che osino. I discografici in Italia sono per la maggior parte persone che di musica non capiscono niente. Quindi ogni artista che arriva sulla scena impara solo da quelli immediatamente prima di lui. Penso a Fedez che ha fatto un pezzo con Gianna Nannini dopo che solo pochi anni prima era stato Fibra a farlo. Un processo in cui tutti imparano, ma non c’è una vera invenzione. Si imita solo qualcosa che sembra aver avuto un effetto in passato. Fibra in alcuni casi ha scommesso su di lui, ma per il resto nessuno punta sulla propria originalità. Ti faccio un esempio estremo: in epoca rinascimentale per diventare pittore dovevi andare a bottega e per entrare in bottega dovevi superare la prova del mastro. Se non la superavi, non diventavi pittore. Questo faceva in modo che ci fosse un numero più esiguo di pittori, ma tutti capaci. Non auspico certamente un ritorno a metodi simili, ma è evidente che manchi un know-how, manca qualcuno che spieghi agli artisti come arrivare ad esprimere se stessi.

LS: Ci racconti la lavorazione di “Mantra”? Come mai tanti produttori?

H: Innanzitutto diciamo che questo disco è il primo in cui le produzioni sono tutte fatte da altri, mai da me. Questo è dato in parte dal mio trasloco a Milano, e dall’altra perchè attorno a Blue Nox si è creato un entourage di produttori validissimi. Ovviamente sia il prodursi da sé che l’usare i beat fatti da altri hanno aspetti positivi e negativi. Il trasloco mi ha portato una difficoltà logistica di partenza, dato che il mio computer, gli hard disk e la strumentazione che uso di solito stavano a Roma. Il dubbio era: trasportare tutto a Milano, reinstallare programmi e insomma riorganizzarsi per produrre tutto in maniera autonoma, o affidarsi al lavoro di altri? Man mano che collezionavo pezzi scritti sui beat di altri, mi sono trovato a dirmi “A questo punto, facciamolo tutto così il disco”. La difficoltà di trovarsi con alcuni dei miei produttori di fiducia, che in quel periodo erano spesso impegnati da altri lavori (Big Joe con Johnny Marsiglia, Fid Mella con Mista e altri…), mi ha portato a scoprire altre persone. Jason l’ho conosciuto perchè mi ha ospitato con i suoi soci tra una data siciliana e l’altra, per ringraziarlo dell’ospitalità gli ho lasciato delle strofe, loro mi hanno dato dei beat e uno di quelli è diventato “Essere o non essere”. Cava l’ho conosciuto a Torino mentre lavoravo alla direzione artistica di Rew & Shade, ho sentito questo beat e ho detto “Mio!” (ride). L’ultimo arrivato è stato Amon. Ci sentivamo quando ormai mi mancavano solo alcuni pezzi da inserire nel disco, ma non trovavo i beat giusti. Gli ho spiegato la situazione, mi fa “Ti mando ste due cazzate”, e invece quelle cazzate erano proprio quello che mi serviva. “L’arte di essere felici”, in particolare, è perfetta. Su “Anthem” ci ho aggiunto io un giro di basso e un piano elettrico, ma in generale sono rimasto soddisfattissimo.

LS: Capitolo Blue Nox: avete fondato questa crew/collettivo che all’inizio era semplicemente un portale, dove mettevate i vostri dischi in free download e condividevate contenuti su cose che vi piacevano, da dischi a video a film a serie tv. È stato un ottimo esperimento e un modo di legare tanto con la fanbase (o almeno, io da fan l’ho vissuto realmente come tale), era un modo di incanalare le necessità social in un mondo che non era ancora totalmente social. Ma voi ve lo sareste aspettati di fare così tanta strada? Oggi cos’è Blue Nox?

H: Blue Nox è partita da Ghemon, Mecna e Macro, che hanno avuto l’idea del blog, anche se noi ci frequentavamo già. Io all’epoca ero un po’ scollato da loro perchè tentavo ancora di tenere in vita Alto Ent. Poi loro mi chiesero se mi interessava partecipare, dato che sapevano che mi interessavo anche di arti grafiche e cinema, e io ho accettato. Il progetto musicale di Blue Nox non era chiarissimo allora, e probabilmente non lo è neanche adesso, ma principalmente perchè stiamo parlando di un gruppo di rapper con identità molto forti. Ma la scelta di mettersi assieme per me paga sempre. Più che un prodotto (un disco, o un sito), Blue Nox è un approccio alle cose. In tutte le manifestazioni di Blue Nox c’è sempre stato quel margine di gusto, impegno, volontà di non guardare dall’altra parte e altre cose con cui mi sentivo abbastanza allineato. Quindi col tempo è diventato un marchio riconoscibile. Ma non è neanche il nome dell’etichetta, che è una parte del lavoro più manageriale e logistica, che è diversa dal discorso artistico.

LS: Progetti futuri?

H: Ne ho moltissimi. Ora che ne abbiamo parlato devo fare un disco club (ride)! No, sul serio, sto pensando a un progetto di pezzi trap, per i quali ho trovato un paio di producer che mi interessano molto, e chiamarlo Hystech, dove giocare sul contrasto di stare su pezzi che hanno quel suono ma dire cose che normalmente si dicono in altri contesti musicali. Poi ho in testa l’idea di un mixtape dal formato classico, dove poter dare vita ai featuring che, per ragioni di impegni miei e di altri, non siamo riusciti a concretizzare su “Mantra”. E infine un’altra idea che mi gira in testa da un po’ è quella di fare un disco acustico, chitarra e voce, di modo da poterlo portare in giro live in quel modo. Mi piace suonare la chitarra, anche se sono un chitarrista mediocre, con la musica ho cominciato così. Ho anche già sei o sette pezzi pronti, e presto li registrerò. Questa del disco acustico è l’idea in stato più avanzato. Fortunatamente c’è già stato anche Gianluca (Ghemon, ndr) che ha fatto da apripista per un tentativo di questo tipo. Mi piace il fatto che un progetto del genere mi chieda ancora di più, è una scommessa ancora maggiore perchè presenta delle difficoltà inedite.