E’ passato un mesetto dall’uscita del disco di Ghemon, e probabilmente ormai lo avrete già ascoltato anche voi che ci leggete. Indipendentemente dai gusti (chi vi scrive lo ha inserito fin dal primo ascolto nei suoi dischi preferiti degli ultimi anni), saremo probabilmente tutti concordi sul fatto che ORCHIdee, fuori per Macro Beats Records, è un album unico nel suo genere, curato fin nei minimi dettagli, che apre la porta a un modo diverso di fare e concepire l’hip hop in Italia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, così come la soddisfazione di Ghemon, che dopo aver finalmente realizzato il progetto che aveva sognato per una vita intera è visibilmente raggiante. Abbiamo colto l’occasione di scambiare due parole con Ghemon sull’argomento ma, visto che sono stati già versati fiumi d’inchiostro sulla sua “trasformazione” e su tutto ciò che comporta, abbiamo volutamente scelto di parlare solo di quello che conta: poche chiacchiere, molta sostanza. Nota di colore: la presente chiacchierata è stata realizzata durante la registrazione del suo live radiofonico a Babylon (Radio2), se volete riascoltarvelo trovate il podcast qui.
Blumi: Si può dire che hai vissuto una sorta di crisi prima di arrivare a concepire ORCHIdee, tanto che il precedente album che avevi annunciato, 440/ Scritto nelle stelle, non ha mai visto la luce…
Ghemon: Esatto. Sono cose che capitano, comunque. Le crisi sono utili, ti segnano, ti aiutano a crescere. Non voglio sensazionalizzarle troppo, ma non voglio neanche farne mistero: io sono fatto così, ho scelto di essere pulito e di esternare le cose che faccio e penso, perciò credo che quello che provo in un determinato momento si veda eccome. Tant’è che la prima cosa che mi hai detto, quando ci siamo incontrati oggi, è che in questo momento sembro molto felice, cosa effettivamente vera. Prima, invece, ero molto a disagio e non riuscivo a nasconderlo: tant’è che, essendo la musica una valvola di sfogo per me, in quel periodo quando la facevo veniva fuori solo la mia parte più sofferta. Ho dovuto reimparare a metterci anche gli aspetti gioiosi: ci ho messo un po’ a capirlo e interiorizzarlo, ma alla fine ce l’ho fatta.
B: Del tuo cambio di rotta si era parlato molto già anni prima che tu lo intraprendessi davvero. Ora che finalmente ci sei in mezzo, credi di essere sulla strada giusta?
G: Sì, perché ci ho molto lavorato. Però sono molto vigile: è una strada che ho appena cominciato a percorrere e non voglio rischiare di abbandonarla tra qualche mese sbagliando direzione. Cerco di godermi le piccole, belle notizie che mi arrivano ogni giorno, ma per me non è facile, perché vivo sempre proiettato in avanti. È questione di ambizione e carattere, non mi accontento mai, voglio fare sempre meglio. A volte non è sano, perché non riesci ad essere felice per le piccole cose.
B: Tu vieni dall’hip hop e finora hai sempre lavorato in un certo modo: immagino che creare un album in una maniera completamente diversa sia anche un po’ spiazzante. ti è mancata, ad esempio, la figura del beatmaker in senso stretto? Ad alcuni tuoi ascoltatori un po’ sì…
G: Lo so, ma ORCHIdee non è quel tipo di disco. Non mi interessava assolutamente comunicare quello, volevo andare da tutt’altra parte. Non è che volessi differenziarmi dagli altri a tutti i costi, sia chiaro, volevo proprio comunicare qualcos’altro: avremmo potuto triggerare le batterie e aggiungere ritmiche più hip hop, ma abbiamo scelto di registrare l’album con un batterista che suona dall’inizio alla fine. Quella è la pasta del disco, non si scappa: si devono sentire le sue dinamiche. Non sono il primo a uscire con un progetto che unisce rap e strumenti, ma credo che sia il primo ad essere così coeso, nel rap italiano. Probabilmente alcuni ascoltatori devono ancora farsi l’orecchio su questo tipo di atmosfere, e capiranno di più i miei prossimi lavori: la gente non è abituata a questo tipo di cambiamento radicale, avevamo già messo in conto che molti sarebbero rimasti un po’ spiazzati. È normale. Per rispondere alla tua domanda, comunque, al momento non mi manca lavorare con un beatmaker. Un po’ perché Fid Mella è stata una presenza costante nella lavorazione di quest’album: lo sentivo continuamente e mi dava sempre il suo parere. E un po’ perché siamo sempre e comunque partiti dal beatmaking, nel senso che abbiamo campionato comunque alcune piccole cose, anche se in maniera più creativa e integrando i sample con i musicisti in studio.
B: Visto che, come dici tu, questa è una sorta di “prima volta” nell’hip hop italiano, credi di avere in qualche modo creato un genere che in futuro sarà emulato?
G: No, non voglio prendermi questa paternità! E non voglio pormi come esempio per i posteri. Però, se davvero sono riuscito a dimostrare qualcosa sia alla scena hip hop che al mondo esterno, ne sono solo felice. Mi auguro magari che qualcuno si accodi a modo suo e che, un po’ come è successo con Blue Nox e Unlimited Struggle, con il tempo si generi un movimento e un sound partendo da artisti che la pensano allo stesso modo. Dipenderà dai miei ascolti, ma sento molto la mancanza di un certo filone più “caldo” in Italia, che mescoli l’hip hop con il future jazz o il neo soul: nel resto d’Europa c’è, qui no. Non c’è una Fatima, per fare l’esempio di una cantante inglese molto forte in questo momento. Nel mio piccolo cercherò di colmare questa lacuna aiutando qualche cantante, a cominciare dalle mie coriste Wena e Alessia, a trovare la loro strada in questo senso. Lo faccio solo per amore della musica, non per tornaconto personale.
B: Domanda un po’ provocatoria: perché un disco così bello, particolare e curato, che già prima di essere pubbicato aveva tutte le carte in regola per far parlare di sé ad altissimi livelli, non esce con una major, ma con un’indipendente?
G: Devi chiederlo a quelli delle major, non a me! (ride) Probabilmente non hanno capito in tempo di cosa si trattava, e lo dico senza presunzione. Abbiamo fatto ascoltare i provini dei brani anche a loro, ma hanno una struttura talmente imponente che a volte i processi decisionali sono molto lenti. A qualcuno piaceva molto quello che sentiva, altri invece non ci hanno visto potenzialità. Diciamo che in generale molti non riescono a capire che il Paese va avanti, che gli ascolti dei ragazzi cambiano, che c’è spazio anche per cose diverse e lontane dalla moda del momento. Per ORCHIdee senz’altro non c’era una case history a cui affidarsi per capire se avrebbe venduto bene o no: bisognava lavorare alla promozione partendo da zero. Forse è stato considerato un rischio troppo grande, ma ora che è uscito e spero abbia creato un precedente. In ogni caso sono contento così, perché da indipendenti abbiamo fatto un disco che forse una major non ci avrebbe consentito di fare in un’atmosfera così libera: abbiamo tirato in mezzo i musicisti che volevamo, non abbiamo fatto nessun compromesso commerciale e, soprattutto, è un progetto che è rimasto in famiglia. Macro Marco mi ha sempre supportato fin dall’inizio e quindi era giusto che fosse lui a pubblicarlo. E oltre a lui c’è stata tutta la squadra che mi ha sempre seguito: la Smc che è il mio management e ufficio stampa da sempre, Nausicaa che è il mio solito booking… In futuro, vedremo.
B: Con una major, però, ora un rapporto ce l’hai: è la Warner, che ti ha reclutato come autore… (sostanzialmente non ha messo sotto contratto lui come artista e persona fisica, ma le sue canzoni: si chiama contratto di edizioni e serve proprio per promuovere i brani scritti da Ghemon, che siano cantati da lui o da qualcun altro, ndr)
G: Esatto, ci tengo a parlarne anche in questa intervista, perché è una cosa che mi rende davvero orgoglioso. Warner ha creduto molto in me, perché non solo sono sotto contratto con loro per le mie opere future da autore, ma hanno anche voluto prendere le edizioni di tutto il mio catalogo di album precedenti. È una soddisfazione enorme, sia dal punto di vista della scrittura di canzoni sia dal punto di vista del percorso fatto finora.
B: Ti hanno già messo all’opera? Meglio ancora: stai già scrivendo qualche canzone per qualche artista pop italiano?
G: Sto già lavorando, ma non posso dire per chi, nel senso che il mio rapporto è con l’editore: è lui che mi chiede di scrivere qualcosa per qualcuno dei suoi cantanti, e non i cantanti direttamente. Per ora per me è soprattutto un gioco, anche perché quello dell’uscita di un disco è un periodo molto frenetico, però mi diverte molto. È un’arma in più nel mio arsenale, diciamo: non voglio diventare un autore a tempo pieno, ma mi piace l’idea di poter fare anche questo.
B: Non mi resta che chiederti i progetti futuri…
G: Continuare così. E mi do pure una pacca sulla spalla da solo! (ride)