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Jahmali: l’intervista

31-05-2014 Haile Anbessa

Jahmali: l’intervista

Dopo quasi 13 anni di attesa l’artista Jahmali ritorna con un grande album intitolato We I Open e targato Reggae Land, etichetta catalana da anni specializzata nel riportare in auge “vecchie glorie” del reggae, ingiustamente dimenticate dal grande pubblico ma che hanno ancora molto da dire. Vediamo cosa ci ha raccontato direttamente da Los Angeles su Skype.

Haile Anbessa: come prima domanda vorrei chiederti come hai cominciato a cantare…

Jahmali: la mia è stata da sempre una famiglia molto musicale e fin da quando ero bambino mi ricordo sempre musicare suonare in casa mia. C’era sempre qualcuno che cantava vicino a me. Ho iniziato quindi con lo pseudonimo di Junior T e ho frequentato parecchi studi di registrazione in Giamaica. Erano gli inizi dell’era Golden Age della Dancehall. Fu in questo periodo che mi ritrovai a registrare gomito a gomito con leggende come Ken Booth, Johnny Osbourne, Jimmy Cliff, Dennis Brown e Gregory Isaacs. Io ero un giovane e non potevo fare altro che imparare da questi uomini. Ho sperimentato in questo periodo il vero amore per la musica. Bob Marley era solito che un musicista si riconosce dallo sguardo e io ho guardato tanti giganti negli occhi.

H.A.: erano questi i giorni in cui hai cantato anche per King Jammy’s e Fattis…

J.: sì anche se ad esempio Fattis era all’inizio del suo business con la sua Xterminator e quindi non lo conosceva ancora nessuno. Quella era l’era di King Tubby! Io ero già nel business ad esempio quando Beenie Man ha registrato il suo primo album Super Beenie Man, me lo ricordo benissimo. Aveva uno stile tutto suo e sapeva come prendere pezzi di testi famosi e rielaborarli in una chiave tutta sua. Questo per farti capire da quanto tempo sguazzo nel mare della reggae music.

H.A.: mi puoi raccontare del tuo featuring con Buju su Mother’s Cry, nel classico album di Banton Inna Heights?

J.: è stato un bellissimo periodo quello. Era il periodo in cui ho inciso anche il mio primo album El Shaddai. Quella canzone nacque quasi per caso e l’album di Buju era quasi finito. Lui mi sentì e mi volle sul suo album. Registrai la mia parte e lui fece la sua ma non ci incontrammo mai per registrare assieme. Buffo.

H.A.: mi stavi spiegando prima di come hai incontrato grandi leggende del reggae nei vari studi di registrazione. Cosa hai potuto imparare da loro?

J.: quando sei giovane puoi solo osservare e tentare di carpire quanto più possibile. Io l’ho fatto tantissimo a quel tempo. Da loro ho imparato soprattutto l’amore che avevano per la musica, il loro unico vero amore che nessuna donna avrebbe mai potuto rimpiazzare. Parlavano di musica, mangiavano musica e sognavano musica. Era parte della loro vita in maniera profonda. Un musicista vero pensa prima alla musica che al cibo che deve portare a tavola, realmente. Ho imparato anche la loro persistenza che mi ha consentito di non mollare mai nel corso della mia carriera.

H.A.: oggigiorno però sembra che i nuovi artisti non sappiano neanche chi siano questi mostri sacri…

J.: verissimo fratello mio ed è proprio per questo che ho scritto una canzone come Ancestors nel mio nuovo album, in cui rendo grazie ai nostri antenati, anche musicalmente parlando. Ci hanno reso la vita molto più facile. Un paio di anni fa ero in Giamaica e un giovane artista incontrandomi non sapeva neanche chi fossi (ride). Non mi aveva mai sentito nominare! Era pieno di volontà ma gli ho semplicemente ricordato che non puoi fare alcun passo in avanti se non conosci il tuo passato. I giovani in Giamaica non conosco nulla precedente al 2000.

H.A.: quali artisti consideri le tue maggiori ispirazioni?

J.: wow domanda difficile fratello. Ho sentito sempre un sacco di reggae e quindi sono stato influenzato sempre da moltissime fonti. Amo la conscious dancehall alla Barrington Levy così come gli artisti impegnati su tutti Burning Spear. Adoro anche le voci vellutate del reggae alla Garnett Silk, Dennis Brown e Beres Hammond.

H.A.: che differenze noti tra il reggae degli anni Novanta e quello di oggi?

J.: la differenza maggiore che noto è la mancanza di spiritualità molto spesso al giorno d’oggi perché per me la spiritualità nella musica rappresenta tutto. Il roots è questo per me. La musica nasce proprio da una vibrazione spirituale e deve raccontare della gente. Oggi molto spesso invece il business regna su tutto. Non si insegna più l’amore e quindi non c’è più giustizia in nessun livello della società. Gli artisti di oggi però sono svantaggiati perché sono nati in un periodo in cui il vero roots già non esisteva più e quindi non hanno potuto essere ispirati da questa musica. Non è comunque colpa loro ma dell’industria che li manovra e li controlla. Personalmente invece nessun producer potrà mai influenzare la mia ispirazione.

H.A.: parlami ora del tuo prossimo album We I Open che sta uscendo con l’etichetta catalana Reggae Land…

J.: è un lavoro grandioso. Un progetto impegnato di vero reggae. Sono fiducioso per questo album perché trasuda positività. Il messaggio che trasmette è importante e il mondo ne ha bisogno.