Una delle critiche che viene mossa più spesso all’hip hop italiano è che gli album suonano più o meno tutti uguali: la prossima volta che qualche profano vi dice una cosa del genere, fategli ascoltare il nuovo disco di Paura. Slowfood riesce a non suonare mai ripetitivo perfino tra una canzone e l’altra, come se il nostro eroe avesse buttato via lo stampino dopo aver creato ogni canzone, eppure è sempre coerente a se stesso, caratteristica sottovalutata ma indispensabile alla riuscita di ogni progetto. Tutto merito del suo artefice, un rapper che in vent’anni di carriera non ha quasi mai deluso le aspettative, ma che allo stesso tempo non si è montato la testa e continua a curare la sua musica artigianalmente, in ogni dettaglio, arricchendola continuamente di nuovi ingredienti per soddisfare i palati più raffinati e futuristici, ma senza mai tradire il gusto della tradizione. In questo senso, il paragone con la cucina regge perfettamente: Paura ha la ricetta giusta per farvi chiedere il bis. E, parafrasando il titolo dell’album, questa chiacchierata si apre con la descrizione di un dettaglio molto Slowfood: l’addetto ai panini della birreria in cui stiamo registrando l’intervista – la Stalingrado di Milano, per chi la conoscesse – per qualche misterioso motivo ogni tanto sculaccia il gigantesco prosciutto che sta tagliando con l’affettatrice, con aria serissima e concentrata. I convitati attorno al tavolo (ovvero la sottoscritta, Paura e dj 2p) discutono per un po’ sulle ragioni di questo spanking, ma nonostante le numerose e suggestive ipotesi formulate non arrivano a svelare l’arcano, perciò si rassegnano a cominciare a parlare di rap.
Blumi: A proposito di Slowfood, è una parola che richiama atmosfere bucoliche e metodi antichi, e contrasta molto con le sonorità futuristiche e urbane del disco. Perché l’hai scelta come titolo?
Paura: Si può anche coltivare il proprio orticello restando al passo coi tempi, magari usando gli ultrasuoni per ammazzare gli insetti in maniera naturale! (ride) Il titolo Slowfood sta a significare una cosa ben precisa: concepisco la mia musica come un piccolo ristorante di pesce sul porto, con venti posti a sedere, dove non c’è un menù e ti servono solo il pescato del giorno. Non voglio essere il corrispettivo musicale di quelle catene di ristorazione in cui tutto è veloce, efficiente e standard. I miei dischi non sono pensati per funzionare, sono pensati per far godere innanzitutto chi li fa e magari, perché no, anche qualcuno di coloro che li ascoltano.
B: Partiamo dalla prima traccia: il titolo, Drive, ricorda l’omonimo film, e anche il beat ricorda il tema della colonna sonora, Nightcall di Kavinsky e Lovefoxxx…
P: La canzone è sicuramente ispirata al film, ma le sonorità volevano richiamare soprattutto le colonne sonore anni ’80 ricche di sintetizzatori e arpeggiatori, come quelle di Carpenter, tipo 1997 fuga da New York. Sono gli stessi riferimenti del brano di Kavinsky, ovviamente, perché la radice è comune. La differenza tra me e lui, però, è che lui usa soprattutto synth, mentre ad esempio nella mia Drive sono presenti degli archi veri, che ho scritto io e ho fatto suonare apposta.
B: Sei in grado di scrivere partiture per archi, quindi?
P: Non proprio! (ride) Diciamo che io ho ideato la melodia, mentre nella pratica per scriverla mi sono affidato al mio socio Daniele, che è un pianista. In ogni caso, ci ho tenuto molto alla presenza degli archi veri. È successa la stessa cosa nel pezzo con Raiz, Apocalypse now, prodotto dai bravissimi Retrohandz, salentini: gli archi che avevano inserito nel beat, ovviamente sintetici, li ho fatti risuonare dal vero da un violoncellista e un violinista, entrambi miei cari amici.
B: Da molto tempo hai intrapreso un percorso di evoluzione e ibridazione del sound hip hop. Pensi che il rap di oggi dovrebbe essere un po’ più sperimentale e simile al tuo (nell’approccio, non necessariamente nei suoni)?
P: Penso che chi ha un animo artistico vuole innanzitutto sorprendere se stesso: il ripetersi è la morte dell’arte, fare sempre la stessa cosa ammazza la fantasia. La musica per me è un continuo rinnovarsi, così per la mia cerco sempre nuovi stimoli. Ognuno, però, ha la sua filosofia: mi limito a spiegare il mio punto di vista, se gli altri lo condividono ne sono felice, sennò pazienza! (ride)
B: Te lo chiedo anche perché un pezzo come Non me ne frega niente potrebbe essere interpretato anche come una critica alla scena hip hop italiana e ai suoi integralismi e purismi…
P: In realtà io sono la persona più purista del mondo: vengo da anni davvero magici, i ’90, e per me l’hip hop è inscindibile dal mio percorso umano. Però non penso di dovermi limitare per questo, ascolto musica di tutti i tipi e mi piace farmi influenzare da tante cose diverse. Quando arrivi a una certa età diventi un po’ più cinico, nel senso che ti rendi conto che c’erano cose di cui prima ti importava tantissimo (magari quelle più superficiali, legate al costume o all’apparenza) che man mano che cresci vengono ridimensionate e ti interessano sempre di meno: il significato del pezzo sta soprattutto in questo.
B: Tornando al tuo percorso, a livello di mood e atmosfere le sonorità del disco sembrano una prosecuzione ideale del progetto Videomind…
P: Certo, è così, anche se Videomind era molto più dance e veloce, mentre quest’album è più da ascolto: si chiama Slowfood anche perché coi BPM ci andiamo piano (ride). In Videomind, tra l’altro, avevo anche dato una mano a Tayone per quello che riguardava l’aspetto più produttivo, magari dando un contributo alla scelta degli arrangiamenti o coinvolgendo musicisti che suonassero sui beat. Credo che però in quest’album ci sia qualcosa di tutti i progetti che ho realizzato finora: di Videomind, ma anche di Octoplus e dei miei lavori con i 13 Bastardi.
B: Quando ti avevamo intervistato per Videomind, qualche anno fa, avevi detto che era stata l’esperienza più bella della tua vita professionale fino a quel momento. Cosa l’ha resa così eccezionale?
P: L’amicizia, innanzitutto: avere feeling con le persone con cui lavori è una sensazione bellissima. Io, Clemente e Tay, oltre a volerci un bene dell’anima, siamo tre cretini sempre pronti a farci quattro risate, e quando siamo andati in tour insieme ci siamo divertiti come tre bambini a cui hanno appena regalato un giocattolo nuovo! (ride) Potrei raccontarti miliardi di aneddoti: ci sarebbe un libro da scrivere su ogni singola data. Abbiamo trascinato promoter, ristoratori, albergatori e addetti ai lavori sull’orlo di un esaurimento nervoso! (ride)
B: A questo punto almeno un aneddoto raccontalo…
(Interviene dj 2p): Secondo me è meglio censurare! (ride)
P: Concordo. Soprattutto quelli che riguardano Clemente! (ride) Stendiamo un velo pietoso.
B: Tipo? Groupie assatanate che lo assediavano in camerino?
Dj 2p: Si vede che non sei mai stata in tour, quella è la prassi! (ride)
P: No, la maggior parte riguardavano stati di percezione fortemente alterata, diciamo così… (sghignazza di nuovo, ndr)
B: Continuando a parlare dei tuoi progetti passati, tu hai cominciato a fare musica con i 13 Bastardi…
P: In realtà avevo già iniziato da prima, con l’Ordine del Pariamento, un gruppo che è confluito poi nei 13 Bastardi: eravamo io, Callister e Castigo. Non abbiamo mai registrato nulla, ma giravamo molto per le varie jam italiane e avevamo cominciato a farci conoscere.
B: In dieci anni avete registrato solo due dischi, L’EP Troppo (1998) e l’album Persi nella giungla (2003). Cos’è successo a quel progetto?
P: Posso dirti che io sono l’unico ad essermene effettivamente andato dal gruppo, nel senso che i 13 Bastardi ufficialmente non si sono mai sciolti, anche se non sono più attivi come collettivo. Siamo rimasti molto amici, ma per me a un certo punto è sorta l’esigenza di fare cose diverse, più mie: quando si lavora in tanti bisogna per forza trovare un compromesso, o meglio, una sintesi, ed è difficile sviluppare la propria personalità artistica fino in fondo. Io sentivo il bisogno di mettermi totalmente in gioco.
B: Insieme a La Famiglia e a Speaker Cenzou, siete stati i primissimi esponenti della scena napoletana a sfondare in tutta Italia. Il rap a Napoli è una galassia infinita di stili e sfumature diverse: come mai secondo te c’è una scena così viva e radicata sul territorio?
P: Secondo me dipende sicuramente alla musicalità del napoletano, sia come lingua che come popolo: da noi c’è un’incredibile tradizione di musicisti – basti pensare che la canzone più conosciuta al mondo è O sole mio – e abbiamo fatto confluire questo retaggio artistico e antropologico anche nel rap.
Dj 2p: Se posso dire la mia, il rap napoletano ha una comunicatività pazzesca. Anche se come me non conosci il dialetto, qualcosa ti arriva, e ti arriva molto forte.
B: Slowfood è uno di quei dischi che, se fossimo all’estero e non in Italia, avrebbe fatto innamorare la scena elettronica e quella clubbing. Essendo però noi in Italia, secondo te come lo accoglieranno?
P: Non ne ho idea. Ho un piccolo seguito e so che chi ha simpatia per me, sia come persona che come artista, sicuramente lo accoglierà bene, come già sta succedendo con la gente che mi è più vicina, che impazzisce per il progetto. Il problema è che forse avrà poco hype… Lo reputo un prodotto di qualità, ma non sempre la qualità paga, soprattutto in Italia.
B: Ma ti senti mai in bilico tra due scene e soprattutto due tipi di pubblico, quello dell’elettronica e quello dell’hip hop?
P: In realtà non credo di avere un vero e proprio pubblico nella scena elettronica. Ho più che altro un pubblico hip hop di mentalità più aperta. Nell’album, però, ci sono anche dei bei momenti boom bap, come Pensieri Blu, che tra l’altro ho prodotto io. O quelli con Speaker Cenzou o Ghemon.
Dj 2p: D’altra parte, anche in America questo tipo di miscuglio tra boom bap e sonorità nuove va tantissimo: prendi Kendrick Lamar, che è capace di mescolare in uno stesso album pezzi con un piglio trap e pezzi con un break che sembra arrivare direttamente dal 1985, riuscendo a fare sembrare tutto coerente…
P: Penso valga lo stesso per il mio album: anche se vive di momenti musicali molto diversi tra di loro, ha un filo conduttore ben preciso.
B: Una domanda un po’ strana. Ascoltando il tuo disco mi è tornata in mente una tendenza molto diffusa ultimamente: quella di scambiare alcuni tecnicismi molto raffinati e non troppo vistosi, come i tuoi, per incapacità di rappare. In sostanza la gente è disabituata a riconoscere la vera abilità dell’mc, perché convinta che il rap sia altro. Tu come la vedi?
P: Finora mi è capitato il contrario: dopo il live che abbiamo appena registrato per Deejay Tv, ad esempio, fonici e redattori che passavano di là mi hanno fatto un sacco di complimenti, pur dichiarando che solito non ascoltano né apprezzano l’hip hop. Quest’album è molto più musicale dei miei lavori precedenti: prima ero molto più tecnico di così, mentre stavolta mi sono preoccupato più del suono. Pensa che il mio socio abituale, Daniele, che mi segue sempre in studio, mi dice che il mio rap ha lo swing, perché tendo sempre a rimanere un po’ morbido e indietro sul tempo…
B: Ecco, proprio a questo tipo di cosa mi riferivo: in questo mondo di mc quadrati, una finezza come entrare volutamente un po’ in anticipo o in ritardo sulla battuta viene scambiato per incapacità di andare a tempo…
P: Sì, infatti mi capita spesso di leggere i commenti di qualche ragazzino che dice esattamente questo. Posso dirti una cosa? Non m’interessa il parere di chi non ha o non capisce lo swing. Non sono loro il mio target di riferimento! (ride)
B: Last but not least: progetti futuri?
P: Oltre a occuparmi di promuovere il disco e di portarlo in giro dal vivo, sto scrivendo e registrando un sacco di strofe per progetti di altri artisti, come Clementino, Blo/B e Brain dei FNO. Sono davvero felice dell’entusiasmo che mi stanno riservando i miei colleghi, a cui le mie ultime cose sono molto piaciute: per me è un onore.