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Cody ChesnuTT: intervista + photo report

13-03-2013 Marta Blumi Tripodi

Cody ChesnuTT: intervista + photo report

Nel 2002 usciva Phrenology dei Roots, un album che fece innamorare i fan dell’hip hop, ma che catturò anche i profani soprattutto grazie al singolo The seed 2.0, il cui ritornello era cantato dall’allora sconosciuto Cody ChesnuTT. Scapestrato, ribelle, rock’n’roll in ogni senso, Cody realizzò un bellissimo doppio album, The headphone masterpiece, poco dopo l’uscita di quel singolo, dopodiché scomparve dai radar. Il perché lo spiega in una sua recente canzone, Everybody’s brother, in cui racconta come un tempo fumasse crack tutti i giorni, mentre ora insegna catechismo ai bambini. L’album da cui è tratta questa canzone è Landing on a hundred, uno dei più nominati nelle classifiche di fine anno di Hotmc, ed è il suo primo lavoro ufficiale in dieci anni: bellissimo e unico nel suo genere, definirlo semplicemente soul sarebbe riduttivo, perché è uno di quei progetti pieni di sfumature e senza tempo che potrebbero risalire a vent’anni fa o essere stati scritti tra vent’anni. A registratori spenti, Cody ci racconta che oggi come oggi quando suona dal vivo la scaletta è composta solo da brani tratti da quest’album, perché sono gli unici che lo rappresentano davvero e, soprattutto, gli unici che si adattano alla sua rinascita e presa di coscienza: “Voglio cantare il tipo di pezzo che potrei cantare anche nel mio salotto, con i miei figli intorno. Niente parolacce o oscenità, niente messaggi negativi. Voglio che la mia musica sia d’ispirazione al pubblico”. Detto da chiunque altro potrebbe sembrare pretenzioso, sciocco o bigotto, ma il suo sguardo serissimo, sereno e determinato ti induce a credergli sulla parola: non è un invasato, è un visionario, nel senso migliore del termine. E evidentemente le sue profonde convinzioni gli sono d’aiuto in tutti i sensi, perché dopo una giornata promozionale pesantissima, che oltre alla nostra intervista prevedeva numerose altre ospitate in radio e tv, riesce comunque a prodursi in uno dei live più potenti e genuini che ci sia capitato di vedere negli ultimi due anni, trascinando la folla e saltando su e giù dal palco per coinvolgere, toccare ed esortare personalmente ogni singolo spettatore in sala (“Ecco perché ci teneva così tanto a sapere se il locale era uno di quelli in cui la gente poteva radunarsi attorno al palcoscenico”, penserà l’intervistatrice tra sé e sé al termine del concerto). Abbiamo avuto occasione di scambiare quattro chiacchiere con mr. ChesnuTT in occasione della sua data milanese, fotografata peraltro dalla nostra Giulia Ghostdog che stavolta ha superato se stessa (potete vedere i suoi scatti nella fotogallery a lato). Ecco il fedele resoconto della conversazione.

Foto di Giulia ‘Ghostdog’ Alloni, tutti i diritti riservati. Si ringraziano Ja-La Media Activities e Propapromoz per la collaborazione nella realizzazione di questo articolo.

Blumi: Hai raggiunto la fama all’età di 34 anni. Cosa facevi prima di allora e, soprattutto, pensi che saresti stato una persona in qualche modo diversa se tu fossi diventato famoso in età più giovane?

Cody ChesnuTT: Ho cominciato a lavorare nel music business almeno dieci anni prima, perciò la musica è stata il mio unico vero lavoro adulto. Ho intensificato il mio impegno soprattutto dopo i 25 anni: facevo principalmente il songwriter, cosa che mi ha dato di che sopravvivere, mi ha permesso di mettere su una band e di concentrarmi sulla mia carriera anche in altre direzioni. Sicuramente se fossi diventato famoso prima sarei stato una persona diversa, perché quando sei giovane tendenzialmente non hai molto giudizio… (ride) Penso che il successo per me sia arrivato proprio al momento giusto, e se fosse arrivato in un altro momento probabilmente tutto sarebbe andato in un altro modo.

B: Il tuo precedente album è uscito 10 anni fa: come mai ci hai messo così tanto a ultimare (o concepire) un nuovo progetto?

C.C.: Sono diventato padre di due bambini, quindi ho deciso di concentrarmi soprattutto sulla famiglia e di dedicarle tutte le mie energie. Non ho mai smesso di fare musica, né ho mai smesso di scrivere, ma essere presente nella vita dei miei figli è diventata la principale priorità per me. In quel periodo sentivo anche l’esigenza di crescere come essere umano, di occuparmi della mia comunità, di studiare di più le radici della mia fede, e tutti questi fattori hanno contribuito a dare forma al materiale di Landing on a Hundred. Ogni cosa ha contribuito nella mia transizione ed evoluzione come artista, dandomi nuove idee per l’album. Non credo che dieci anni siano poi un tempo così lungo per lavorare a un disco: penso che fosse il tempo necessario per concepirlo e crescere abbastanza per affrontare certi argomenti.

B: Hai raccolto i soldi per finanziare Landing on a hundred tramite i tuoi fan, che hanno aderito a una petizione su Kickstarter. Come ti è venuta l’idea e, soprattutto, consiglieresti ai tuoi colleghi di adottare lo stesso metodo?

C.C.: Certo, lo consiglierei. L’idea è venuta dal mio manager, ma avevo già sentito parlare di Kickstarter qualche mese prima, perché una mia amica ha lanciato una petizione sul sito per finanziare la rosticceria di cucina libanese che voleva aprire. Nel giro di pochi mesi ha raccolto 18.000 dollari ed è riuscita ad inaugurarla: ai tempi mi era sembrata una trovata geniale, ma poi avevo completamente dimenticato la cosa fino a quando non lo hanno proposto a me. Quando ho capito che si trattava dello stesso sito con cui lei ce l’aveva fatta, mi sono detto “perché no?”. Ormai ci sono così tanti modelli diversi per produrre musica che bisogna essere aperti alle nuove idee, e a conti fatti è stata un’esperienza eccezionale vedere tutte quelle persone essere così generose, sia in senso economico che in senso umano. Mi servivano 20.000 dollari per finanziare il disco: ne ho ottenuti 22.000 e qualcosa. Davvero straordinario.

B: Hai pubblicato l’album tramite One Little Indian, che tradizionalmente è un’etichetta votata all’indie più che alla black music…

C.C. : Il rapporto con la One Little Indian è iniziato con il mio primissimo disco, perché hanno licenziato loro il master (per farla semplice, pur non avendolo pubblicato direttamente la label è proprietaria di gran parte dei diritti dell’album, ndr). Il proprietario dell’etichetta ogni tanto mi chiamava per sapere cosa stavo combinando e se per caso fossi interessato a lavorare di nuovo insieme, perciò quando ho terminato Landing on a hundred l’ho chiamato. Mi hanno sempre supportato molto, e soprattutto sono molto pazienti per essere dei discografici: mi lasciano tutto il tempo necessario per lavorare e non vogliono a tutti i costi che io sforni un singolo che possa arrivare in cima alle classifiche. Sono interessati a cose molto più importanti, come la qualità, e quindi è un piacere collaborare.

B: A proposito di singoli, I’ve been life è dedicato all’Africa. Cosa ti ha spinto a parlare di questo tema?

C.C.: Sfortunatamente non sono mai stato in Africa, anche se credo che riuscirò finalmente a visitarla quest’estate. Ovviamente, essendo io un afroamericano, sento una forte relazione con quel continente, ma a parte le banalità relative alle mie origini secondo me è da molti anni un luogo in profonda evoluzione, anche se i media ne evidenziano soprattutto il lato più oscuro: rivoluzioni, carestie, tragedie… Con questa canzone volevo mostrarlo sotto una luce positiva, e l’ho fatto con la musica. Volevo dare il mio contributo a tutta questa evoluzione e mostrare ciò che di bello sta succedendo. E forse questo permetterà alla mia gente di fare ritorno all’Africa e ripopolare il continente, tornare alla gloria dei tempi antichi della fondazione dell’impero africano e costruire un nuovo futuro.

B: Nel music business circolano numerose leggende metropolitane su di te: dicono che tu sia una persona estremamente originale, a tratti un po’ matta, ed è proprio a queste tue bizzarrie che si dovrebbero i tuoi numerosi anni di silenzio; c’è chi dice perfino che saresti stato “cacciato fuori” dall’industria discografica. Considerando anche che ora che sono qui con te non mi sembri un pazzo o una persona poco equilibrata, che ne pensi di queste voci?

C.C.: Beh, credo che non ci sia molto da dire a riguardo, non trovi? (ride sotto i baffi, ndr) Non so perché la gente dica questo. Forse è perché i contenuti del mio primo album sono completamente diversi da quelli del secondo, e le idee alla base sono molto lontane le une dalle altre. Un po’ come se avessi avuto un improvviso sbalzo d’umore, o come se fossi schizofrenico… In ogni caso, non puoi controllare le impressioni che la gente si fa su di te. L’importante è riuscire a sfatare questi miti quando hai la possibilità di incontrare direttamente le persone, come nel nostro caso. Sarei pazzo quindi? Mah… (ride di nuovo e scuote la testa, ndr) Pazzo in che senso, poi?

B: Forse è solo perché sei un artista vero, che pensa con la sua testa, e non un prodotto discografico che una volta firmato un contratto segue le indicazioni che gli arrivano dall’alto…

C.C.: Non è forse pazzesco il fatto che essere una persona vera ti renda un folle agli occhi del mondo, di questi tempi?

B: Lo è, in effetti… Sempre riguardo alla tua carriera, il fatto che tutti ti conoscano soprattutto per il ritornello fatto per i Roots su The seed 2.0 non ti dà un po’ di fastidio, visto che la tua musica in realtà consiste in tutt’altro?

C.C.: No, per niente, perché in fondo io sono soprattutto un songwriter: lo sono sempre stato, e da quando sono diventato un adulto consapevole ho sempre sperato che la mia musica potesse toccare davvero il pubblico, in qualsiasi modo. Per cui se la gente mi conosce solo per quella canzone, va bene, perché considero un grande successo personale l’aver scritto un ritornello che è arrivato letteralmente in tutto il mondo, e che tutto il mondo ricorda.

B: Tra l’altro, alla fine hai effettivamente chiamato almeno uno dei tuoi figli rock’n’roll? (Nel ritornello di The Seed Cody dice “Se Mary partorisse mia figlia stasera, la battezzerei rock’n’roll”, ndr)

C.C.: No, ma il mio ex coinquilino con cui vivevo a Los Angeles ha davvero chiamato sua figlia Rock’n’Roll. È solo un secondo nome e lo pronuncia diversamente, ma lo ha fatto. Qualche tempo fa l’ho anche conosciuta, perché lei ha voluto incontrare il tizio a cui suo padre si era ispirato per il suo nome, per capire che tipo di persona fosse… Penso sia una cosa davvero favolosa.

B: Quali sono i tuoi progetti futuri?

C.C.: La cosa davvero importante per me adesso è spingere il più possibile questo disco. È come se lo stessi ancora costruendo pezzo per pezzo, perché la gente lo sta scoprendo solo ora. Per il resto voglio soprattutto essere presente per i miei figli, perché non li vedo da tre settimane e per me è davvero dura non potere essere accanto a loro. Ciò che vorrei davvero è trovare un equilibrio tra la promozione della mia musica e la mia famiglia e, se dovessi realizzare un sogno, vorrei realizzare qualche colonna sonora. Tra due o tre anni, poi, mi piacerebbe pubblicare un nuovo album.