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Mr. Phil: l’intervista

15-02-2013 Marta Blumi Tripodi

Mr. Phil: l’intervista

Molti di noi hanno cominciato ad ascoltare hip hop negli anni ’90, e a quei tempi esisteva praticamente un solo tipo di produttore: quello che campionava da vinile (che ovviamente collezionava anche), usando un Akai o una macchina simile, e conosceva la musica come nessun altro, intrattenendo intere tavolate di b-boy citando a memoria discografie, annate, generi e band. Con il passare degli anni questo tipo di beatmaker è diventato sempre più raro, ma per fortuna non si è ancora estinto del tutto: Mr. Phil è uno dei più illustri rappresentanti della specie. Nei suoi oltre quindici anni di attività, a differenza di molti suoi colleghi, ha centellinato le sue produzioni, realizzando solo tre album solisti: i primi due, tra l’altro, sono usciti nei lontani 2005 e 2006. La notizia che quest’anno sarebbe uscito un suo nuovo lavoro, quindi, a maggior ragione è stata accolta con grande gioia dagli appassionati, e le aspettative non sono state deluse: Poteri forti è un album ricchissimo di spunti e talenti, dal sapore senza tempo. Abbiamo incontrato il suo creatore a Milano, per parlare di quest’ultimo disco, ma anche (e forse soprattutto) della difficile e spesso sottovalutata arte del beatmaking.

Blumi: Il titolo Poteri forti è stato molto criticato da alcuni, soprattutto da coloro che credono alle teorie massoniche. Perché l’hai scelto?

Mr. Phil: Specifico che ovviamente io sono contro i poteri forti, anche se non tutti l’hanno capito… Ho voluto giocare sul fatto che il titolo si potesse interpretare in due sensi, quello più complottista e quello reale. Io mi riferivo al fatto che tutto quello che mi circonda – la politica, il sistema lavorativo, perfino la musica – va in una direzione che non è scelta dal singolo, ma è sempre imposta dall’alto. Da italiano appartenente a questa generazione non riesco a realizzare nessuno dei miei sogni, anche provandoci con tutto me stesso, per colpa di politiche sbagliate, ostacoli burocratici, scarsa apertura mentale. La musica per me è uno sfogo, perciò Poteri forti è soprattutto un racconto personale di ciò che mi circonda e dei problemi che affronto tutti i giorni.

B: Sono parecchi anni che non esce un disco a tuo nome. Cos’hai fatto in tutto questo tempo?

M.P.: Dopo l’ultimo album (Guerra fra poveri del 2006, ndr) non mi sentivo molto ispirato: anche perché, essendo io un produttore solista che non è coinvolto in nessun collettivo o progetto fisso, in quel periodo mi guardavo intorno e non trovavo nulla che mi interessasse particolarmente. In quegli anni di “pausa” mi sono dedicato molto al djing e ho aperto un negozio, un errore clamoroso proprio per la burocrazia folle di cui sopra… (ride) Sono tornato all’opera perché, dopo tutto questo tempo, ho dato un’occhiata in giro e ho trovato finalmente una scena cambiata e piena di realtà interessanti, soprattutto a Roma. Insomma, ho ritrovato gli stimoli di cui avevo bisogno.

B: A proposito di queste realtà interessanti, nel tuo disco ci sono moltissimi esponenti della scena romana: alcuni di loro sono molto conosciuti anche altrove, altri meno. Come li hai selezionati?

M.P.: Pur non avendo fatto il beatmaker negli ultimi anni, ho comunque continuato a frequentare la scena; soprattutto a Roma, dove suonavo spesso in giro. Le realtà nuove sono molto visibili e importanti, anche se magari fuori città sono meno evidenti. Honiro, Barracuda, Brokenspeakers, hanno un seguito pazzesco, per non parlare di tutte le formazioni classiche come Colle Der Fomento, Cor Veleno, Truceklan e via dicendo. Sono molto felice di tutto questo fermento, e per questo ho voluto dargli grande spazio.

B: Cambiando argomento, tu hai una grandissima cultura del sampling. Rinunceresti mai a campionare per usare metodi di produzione più “contemporanei”?

M.P.: Io lavoro in un certo modo anche (e soprattutto) perché nasco artisticamente in un periodo in cui le cose si facevano così. Sono rimasto legato a quel modo di lavorare, e visto che per me il beatmaking non è un lavoro, ma una passione, preferisco continuare a farlo nel modo che più mi appassiona. In studio ho tutti i software di produzione del mondo, ma onestamente mi tengo molto volentieri il mio 950 e sono felice come una pasqua! (ride)

B: Quindi solo vinile, naturalmente…

M.P.: Certo! Niente mp3 e niente cd; solo vinili originali, non uso neppure le ristampe. Per me è innanzitutto un modo per arricchire la mia cultura e conoscenza musicale. A differenza di quando avevo diciott’anni, però, sono un po’ meno integralista nei confronti degli altri: io voglio produrre in questo modo, ma se tu non lo fai non vuol dire necessariamente che tu sia un fake. Però se incontro qualcuno che usa lo stesso mio metodo, per me i suoi lavori hanno sicuramente un valore aggiunto.

B: Sempre parlando di sample: ascoltando i tuoi sembra che i campioni siano sempre tratti da canzoni piuttosto vecchie, ma è effettivamente così?

M.P.: In effetti sì, però in quest’ultimo album c’è stata un’evoluzione: dieci anni fa campionavo soprattutto dischi anni ’70, mentre in Poteri forti arriva quasi tutto dagli anni ’80. Se continua così, nel giro di breve dovrei essere in grado di dedicarmi agli anni ’90! (ride) Ho voluto esplorare questo decennio perché c’è la comparsa dei suoni elettronici: sonorità cupe e acide, che mi interessano e cerco molto in questo periodo, anche perché riflettono l’umore generale di questo momento storico.

B: Usi anche un sacco di campioni vocali: in Italia non è una cosa particolarmente diffusa, è soprattutto il marchio di fabbrica tuo e di Fritz Da Cat…

M.P.: Oltre al semplice fatto che mi piace, come produttore mi aiuta, e aiuta anche l’mc: se c’è una voce che dice qualcosa, riesco a dare un mood diverso al pezzo e un’indicazione di quello che dovrebbe esprimere il testo.

B: Qual è il tuo beatmaker di riferimento?

M.P.: Domanda molto difficile, è un po’ come chiedere qual è il tuo piatto preferito… Quando ero ragazzino ero fissato con Marley Marl, ad esempio, mentre nell’ultimo periodo sicuramente il mio preferito è Alchemist, insieme ad Evidence. Ma sarebbe impossibile lasciare fuori Premier o Pete Rock, che mi fanno venire davvero la pelle d’oca.

B: Secondo te come si riesce a mantenere un’originalità nel beatmaking – soprattutto campionando, visto che di fatto si tratta di ricombinare parti di canzoni già esistenti?

M.P.: È molto difficile trovare un proprio stile originale, però ne vale la pena, perché diventa il tuo marchio di fabbrica. Tutti riconoscono un beat di Shocca fin dalla prima nota, ad esempio, ma all’inizio la gente diceva le sue basi sembravano copiate da dj Premier: ci ha messo qualche anno prima di trovare la chiave per essere davvero se stesso, e oggi ha un sound talmente definito che a volte si lamenta perché non riesce più a scollarselo di dosso… (ride) Ciascuno ha il suo metodo: io, ad esempio – anche se forse dovrei evitare di spiegare pubblicamente i segreti del mestiere – trovo un sample che mi piace, lo campiono col 950, lo faccio a pezzi tagliandolo in ottavi o sedicesimi. Dopodiché lo rimonto con il Cubase, esattamente com’era in origine, e comincio a giocare con i vari segmenti, trovando una sequenza che mi piace. Tanti beatmaker si fermano a quello, mentre io dopo la prima sequenza lo riascolto a lungo e lo personalizzo. Questa seconda fase è importantissima, perché è quella che dà davvero la mia impronta al beat. Se non lo facessi, sarebbe una strumentale anonima.

B: Restando sulla produzione, c’è differenza tra lavorare per dischi di altri e farlo per un disco proprio?

M.P.: Per me nessuna. L’unica differenza è economica: prima, quando davo i miei beat in giro, sapevo che ogni disco avrebbe venduto un certo numero di copie e avrebbe avuto un certo numero di passaggi, perciò potevo contare su un minimo ritorno in termini di Siae. Oggi, invece, ruota tutto attorno ai video: se non ne giri uno, il brano praticamente non esiste. Mi sembra uno spreco di energie, anche perché io ovviamente devo pagare l’affitto dello studio e i vinili che compro per campionare, perciò tendo a dire di no alle collaborazioni, a parte in quei pochi progetti che per me hanno davvero un senso.

B: Quindi, a differenza di molti tuoi colleghi, i tuoi beat non sono in vendita?

M.P.: Me li chiedono spesso, ma di solito dico di no: come dicevo, per me il beamaking è una passione e non un lavoro. Di solito sono soprattutto gli emergenti a voler comprare i miei beat, e non mi piace vedere il mio nome associato a progetti di cui magari non so nulla o che musicalmente non mi dicono granché. Voglio lavorare solo con gente davvero brava: non necessariamente famosa, ma valida, che mi permetta di mantenere una certa integrità artistica. Il fatto di dover pagare le bollette a fine mese non è una giustificazione sufficiente, almeno per me. Ovviamente non giudico chi invece vende le sue strumentali, sia chiaro.

B: A proposito delle persone con cui hai collaborato, come hai abbinato i diversi artisti presenti nel tuo album e, soprattutto, perché ne hai chiamati così tanti?

M.P.: Di solito io propongo agli artisti di partecipare al disco e gli artisti mi suggeriscono le persone con cui vorrebbero registrare un brano. Per creare un pezzo che abbia un capo e una coda la base pesa per il 40%, gli mc per un altro 40%, ma il restante 20 si gioca tutto sull’abilità nel confezionare il tutto in un pacchetto che abbia un senso. Se magari ai tempi di Kill Phil, che era il mio primo album solista, non badavo troppo a queste cose e mi lanciavo anche in abbinamenti un po’ forzati, ormai ho imparato a curare molto di più questo aspetto. Il fatto che invece siano così tanti, invece, dipende dal fatto che ero fermo da molto tempo e nell’entusiasmo di rimettermi al lavoro ho voluto abbondare… (ride) Ripensandoci forse ho esagerato un po’, anche perché magari il disco ha perso un po’ di omogeneità: sarebbe stato meglio avere 15 pezzi, anziché 22. Poteri forti è un album completamente autoprodotto, tra l’altro, quindi a livello logistico e burocratico incastrare tutti e tutto è stato un inferno. E poi, per come va il mercato adesso, è meglio fare un disco più corto che contenga quattro singoli da paura, piuttosto che un mixtape lunghissimo e ricchissimo che nessuno riesce ad ascoltarsi dall’inizio alla fine.

B: Restando in tema di realizzazione dischi, nella sua intervista Marco Polo ci ha spiegato che lui non si limita mai a consegnare un beat a un mc, ma spesso gli indica anche il tema e segue la lavorazione del brano in tutte le sue fasi, perché “questa è la differenza tra un produttore e un semplice beatmaker”. Sei d’accordo con lui?

M.P.: Certo, assolutamente. Sono cose che capisci con l’esperienza, però. All’inizio mi concentravo molto sulla base e pochissimo sul pezzo: non m’interessava tanto se il ritornello girava o se il testo aveva un senso. Ora, invece, mi rendo conto che il lavoro di un produttore non finisce dopo aver consegnato la base all’mc, e non produrrei mai un pezzo che contiene un messaggio con cui non sono d’accordo. Credo che questa cosa manchi molto a tanti giovani produttori di oggi: non pensano a fare dei bei pezzi, ma a fare dei bei beat.

B: Già che ci siamo: qual è la tua traccia preferita dell’album?

M.P.: Da una parte Uno contro uno, perché per me rifare Combattimento mortale era un sogno fin da ragazzino. Dall’altra Poteri forti, che in fondo è un po’ l’altra faccia della medaglia rispetto a Uno contro uno: in entrambi i casi si tratta di posse cut, una riservata alla nuova scuola e l’altra alla vecchia.

B: Tra l’altro, in questo disco hai voluto chiamare anche diversi tuoi colleghi produttori: Bassi, Shocca, Ice One… Come si è sviluppata la collaborazione con loro?

M.P.: Ognuno è un caso a sé, ovviamente, però sono tutti e tre artisti che nella mia carriera mi hanno dato davvero tanto, e per me è un onore averli nel mio progetto. La musica per me è un processo collaborativo, comunque, per cui – a maggior ragione perché sono produttori che condividono la mia visione – mi hanno dato degli ottimi input, e come con tutte le persone con cui ho lavorato siamo arrivati a una sintesi. L’essenziale è la fiducia!

B: Una domanda un po’ estemporanea: tu hai iniziato a fare musica giovanissimo negli anni ’90, hai vissuto e lavorato sia a Milano che a Roma e, complici anche le tue origini inglesi, hai viaggiato molto. Visto che hai una prospettiva un po’ più ampia rispetto a molti altri tuoi colleghi, che idea ti sei fatto di tutte le polemiche e le divisioni interne alla scena italiana?

M.P.: Secondo me lasciano un po’ il tempo che trovano: sono gli stessi identici ragionamenti da quindici anni, e spesso i personaggi che li fanno – sia da una parte che dall’altra – ci marciano su per ragioni di marketing o di assenza di altri argomenti. Commerciale, hardcore, vecchio, nuovo… Parole senza senso: io voglio fare della buona musica, e basta. Ciascuno dovrebbe fare ciò che si sente di fare ed essere poi giudicato sulla base del risultato.

B: Progetti futuri?

M.P.: Dopo la festa di presentazione dell’album a Roma partiremo in tour per portarlo in giro per l’Italia: stiamo chiudendo le date proprio in questi giorni e in ogni tappa dovremmo essere in grado di portare sul palco parecchi mc presenti sul disco. Inoltre sto cominciando a lavorare a un EP insieme a Sick Luke, il primo progetto a quattro mani della mia vita. Ho una grandissima stima per lui, è un artista davvero forte nonostante sia giovanissimo. Dopodiché, credo che comincerò a lavorare a un nuovo album.