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Ka: l’intervista

13-09-2012 Reiser

Ka: l’intervista

**Kaseem Ryan, meglio noto come KA, quest’anno ha pubblicato Grief Pedigree. Lodato all’unanimità da testate tanto diverse quanto numerose (si va da Pitchfork a Kevin Nottingham), a mio avviso è il disco dell’anno, quantomeno in ambito underground. Di conseguenza, quando lo scorso luglio mi si è presentata l’occasione di intervistarlo, non ho perso tempo e questo è il risultato di una telefonata di oltre mezz’ora [foto di Lele Saveri; \].**

Reiser: Innanzitutto vorrei che ci dessi qualche informazione sul tuo passato, magari ancor prima che cominciassi ad incidere dischi. Nel particolare, sarebbe interessante che ci raccontassi come sono state la tua infanzia e la tua adolescenza a Brownsville, dato che quel quartiere ha influenzato molto la tua produzione musicale.

KA: Chiaramente, il posto in cui sono cresciuto ha influenzato me per primo, la persona che sono adesso e in generale come mi comporto e mi sono comportato. Le strade di Brownsville vanno a braccetto con il DNA dei miei genitori, diciamo.

Nello specifico, vedi, è stata dura. Io sono nato negli anni ’70 e quindi ho visto prima l’era dell’eroina e il modo in cui ha devastato interi quartieri. Dopo quella, negli anni ’80, ho visto l’era del crack e delle guerra per il controllo dello spaccio e i morti che ha prodotto, molti dei quali erano miei amici… Insomma: mi ritengo fortunato ad essere ancora qui, e non vorrei rivivere quel periodo.

R: Immagino — ma almeno la situazione è cambiata negli ultimi anni?

KA: Sì, non è così pesante come un tempo. New York adesso è quasi uno stato di polizia, con agenti ad ogni angolo, e poi anche le tipologie di droghe sono differenti. A parte la cocaina, ad andare sono le pillole e i derivati dei medicinali, roba che i ragazzi si possono procurare in maniera diversa.

R: OK, poi sicuramente ritorneremo all’argomento New York e affini, ma venendo adesso alla tua carriera musicale c’è una curiosità da parte mia. A quanto pare, vent’anni fa cominciasti a rappare come membro dei Natural Elements ma dopo breve decidesti di uscire dal gruppo in quanto non ti ritenevi all’altezza del compito…

KA: Non lo ero, infatti.

R: In ogni caso, un’ammissione più unica che rara, nell’hip hop [ride]; quello che m’incuriosiva sono però le motivazioni. Ti sentivi cioè inadeguato rispetto al tuo ideale di hip hop, oppure era semplicemente dovuto al fatto che gli standard dell’epoca erano troppo alti?

KA: No, erano i miei ideali… come dire? Amo l’hip hop e non volevo mancargli di rispetto. Non mi sentivo abbastanza bravo, in fondo rimavo come tutti mentre il mio scopo era ed è di essere il migliore, o perlomeno unico. Non essendolo, sono uscito dal gruppo e, siccome in generale preferisco allenarmi da solo, mi sono ritirato nella mia Batcaverna e là sono rimasto fin quando non mi son detto “Ok, sono io, sono pronto”.

Sai, prima non è che rimassi come Big Daddy Kane, però ero veloce, cercavo di mettere troppe parole nelle strofe, urlavo troppo… non era una cosa mia, a conti fatti non mi piacevo.

R: Ma rispetto ad allora, come pensi che sia cambiata la situazione? Anche a livello di underground non mi sembra che siano in molti a porsi i problemi che ti sei posto tu, col risultato che il manierismo oggi regna imperante.

KA: Personalmente non do tutta la colpa agli artisti. Certo, troppi si adagiano sugli allori dicendosi “ok, sono bravo, sono arrivato” e lì si fermano, magari senza essere bravi davvero. Ma in realtà dovrebbero essere gli ascoltatori a chiedere di più. Io per primo, se percepisco che Rapper X non si è sbattuto abbastanza, non si è impegnato nella creazione del suo disco, mi rifiuto di ascoltarlo — punto. Mi rifiuto di supportarlo a qualsiasi livello.

Insomma, dovrebbe esserci una sorta di rito collettivo in cui chi ama l’hip hop dice: “Sai che c’è? Non sei abbastanza bravo”. Questo creerebbe un filtro, che adesso non esiste, attraverso il quale l’artista dovrebbe passare rendendosi eventualmente conto che no, non è abbastanza bravo. Che se vuole ottenere successo deve sbattersi di più, banalmente.

R: Ecco, il successo: ascoltando Grief Pedigree, appare evidente che non è musica per tutti, non è easy listening. Pur avendo alle spalle un bel po’ di esperienza, per apprezzarlo ho dovuto concentrarmi, rilassarmi e quasi «impegnarmi».

KA: Vedi, quella è l’altra cosa: gli ascoltatori di oggi sono troppo impazienti. Sarà una questione anagrafica, ma noi —hai più o meno la mia stessa età— all’epoca non è che avessimo troppi soldi, giusto? Quindi ci compravamo un CD o una cassetta quando ne avevamo i mezzi, e poi per forza di cose la mettevamo nel walkman, e lì restava per uno, due, tre ascolti di fila. Anche di più, almeno fin quando non avevi abbastanza soldi per un nuovo disco.

Adesso invece giri con 1000 canzoni in shuffle sull’iPod e perdi l’abitudine di ascoltare l’album per intero… i più giovani quest’abitudine nemmeno l’hanno mai avuta, temo.

Ti faccio un esempio abbastanza indicativo di questa mentalità: c’è gente che adesso mi chiede quando uscirò col prossimo album, e Grief Pedigree è uscito a febbraio di quest’anno! Cazzo, io ho inciso quella roba affinchè potessi godertela a lungo, che domande sono?

R: Entrando appunto nel dettaglio di Grief Pedigree e del taglio che gli hai dato: si tratta indubbiamente di un disco dalle atmosfere generalmente cupe, eppure ad un ascolto più attento si possono notare molte sfumature. Cosa ti ha spinto verso quella direzione?

KA: Beh, prima di tutto ho voluto fare qualcosa che mi rispecchiasse, che fosse sincero. Volevo fare qualcosa che soddisfasse me per primo, sapendo che se fosse piaciuto a me allora sarebbe piaciuto a chiunque avesse dei gusti simili. Avendo seguito l’hip hop fin dalla sua nascita, e avendo assistito a tutti i suoi cambiamenti, penso di essere in grado di giudicare cos’è valido e cosa non lo è.

Aggiungo che, se da un lato mi piacerebbe riuscire a vivere facendo musica e basta, dall’altro, l’avere un lavoro mi consente di esprimermi artisticamente senza alcuna restrizione. Non ti nascondo infatti che se dovessi mangiare con la mia musica probabilmente sarei costretto a fare scelte diverse, diciamo più orientate al mainstream. Così, invece, ho potuto assemblare il sound che piace a me senza preoccuparmi d’altro.

R: Suppongo quindi che anche la decisione di scrivere testi in forma più asciutta e sobria, e che si distanziano dai cliché del genere, sia figlia della medesima libertà…

KA: Guarda, io parlo di esperienze avute nel corso della mia vita e lo faccio sperando che vengano percepite come reali, che se ne senta l’autenticità. [Pausa] …ho fatto cose di cui non vado orgoglioso, anzi, molte di esse sono vergognose. Quando scrivo, spesso mi chiedo come abbia potuto comportarmi in maniera così stupida. Ma questa è la prospettiva di un uomo, di un adulto, che parla di queste cose riflettendoci sopra e pertanto è ovvio che non m’interessi glorificarle o abbellirle.

R: Nemmeno vergognarti, però…

KA: Beh, devo dire che ogni tanto scriverne in un certo modo sia quasi il mio modo di chiedere scusa per quello che ho fatto. La musica è una sorta di terapia per me, mi ha aiutato ad affrontare un sacco di merda e mi ha aiutato a maturare. Ovviamente, la mia speranza è che questo percorso sia percepito anche da chi mi ascolta.

Sul fatto che poi sia cupa, beh, io provengo da un posto cupo. Non ho mai avuto a che fare con la ricchezza, anzi, per buona parte della mia vita ho sofferto la povertà e di conseguenza, per cercare di uscirne, ho sfruttato qualsiasi possibilità.

R: Volendo adesso parlare della tecnica, m’interessava capire qual è il tuo processo di scrittura. A grandi linee, il tuo stile sembra essere una fusione tra lo storytelling di Slick Rick, l’impressionismo di Nas e la tecnica di Kool G Rap. Come funziona: vai in giro a prender note e le rielabori in un secondo tempo, scrivi di getto, ti isoli…

KA: Senza voler rivelare troppo, ti dico che non ho un metodo standard. Talvolta mi viene l’ispirazione di punto in bianco, altre volte passano dei mesi prima che riesca a partorire una strofa di valore. Ma la rielaborazione, il lavoro sui testi, è il frutto di tanta pratica ed il motivo principale per cui ci ho messo così tanto tempo ad uscire con il disco. Ciò che conta, quello che mi rende orgoglioso, è che alla fine il tutto suoni naturale ma che poi arrivino persone come te che riescono a cogliere di volta in volta le diverse sfumature e ad apprezzare i dettagli.

R: Parlando di dettagli, molti tracciano dei paralleli tra te e Roc Marciano. A mio avviso, però, lui scrive in maniera meno descrittiva basandosi più su un immaginario, se vogliamo, “appariscente”, mentre tu sei più pacato nei toni.

KA: Ecco, parlando di Roc Marcy, forse saprai che stiamo lavorando ad un disco insieme sotto il nome di Metal Clergy. Il titolo dell’album sarà “Piece be with you” [gioco di parole, dove per “piece” s’intende una pistola], e contiamo di farlo uscire a poca distanza dal suo nuovo album, a cui sta apportando gli ultimi ritocchi.

D’altro canto non stiamo nemmeno correndo o forzando le cose, l’obiettivo resta sempre di fare qualcosa che duri nel tempo.

Quello che secondo me renderà l’album speciale sarà la differenza che corre tra lui e me: come dicevi, Marcy rappresenta un aspetto del ghetto [«hood» nell’originale] e come lo presenta lui è il migliore. Poi ci sono io a coprire la restante metà. In pratica, all’ascolto il primo impatto arriva da lui, e poi sul lungo periodo ci sono io. Secondo me una combinazione speciale.

R: E quanto alle produzioni? Siete entrambi beatmaker oltre che MC…

KA: Faremo un lavoro 50/50, senza ricorrere ad esterni, vogliamo forgiare il nostro suono in modo da essere immediatamente riconoscibili.

R: Tornando invece a te, la cosa che mi ha colpito è che hai diretto tutti i tuoi video da solo riuscendo così a riflettere con le immagini il mood del disco. Ti sei ispirato a qualcuno in particolare?

KA: Anche qui, la mia principale ispirazione è data dalla mia esperienza. Poi, anche vedendo i video la gente potrebbe pensare che sono una persona depressa, visto che tutto quel che faccio ha toni cupi e deprimenti. In verità, cerco di trovare la bellezza anche in posti che belli non sono. Da piccolo non lo potevo fare perchè non potevo permettermi di comprare una macchina fotografica, ma adesso posso andare in giro di notte e immortalare i posti e le situazioni che da sempre m’ispirano a scrivere. Si tratta sostanzialmente dello stesso processo che mi porta a scrivere di certe cose in un certo modo, solo che adesso dispongo di un’ulteriore possibilità d’espressione.

R: Dovendo chiudere l’intervista in grande stile, non puoi sfuggire alla classica domanda sullo stato dell’hip hop [ride]. Però volevo girarla in maniera diversa, ossia: ancor’oggi esiste il luogo comune che l’hip hop sia fatto da giovani per giovani, e se questo poteva essere ancora vero 15 anni fa, adesso mi pare sia solo una scusa per avere quarantenni che parlano e si comportano da adolescenti. Ora: pensi che esista un mercato per persone non più giovanissime e che vorrebbero sentire lo stesso genere, fatto però da adulti per adulti?

KA: Guarda, spero di sì. Mi pare di capire che la vediamo in maniera simile, cioè che per molto tempo nessuno riuscisse a parlarci in qualche modo. Più invecchiavo, meno mi sentivo rappresentato dall’hip hop… peccato che sia l’unica musica in cui mi riconosca. Cosa dovrei fare, smettere di seguirla?

In tal senso mi ha fatto piacere parlare con un paio di coetanei che mi hanno detto che li avevo ispirati a proseguire a fare hip hop, e dio solo sa quant’è difficile fare questa musica quando hai 35, 36 anni e hai l’impressione che a nessuno freghi un cazzo di quello che dici.

Insomma… non sono giovane, non sono bello, non sono alla moda: posso solo sperare di essere un’ispirazione per chi vede in me un vero liricista, un vero MC che vale la pena di ascoltare. Spero solo che questo non riguardi esclusivamente le persone sopra ai 30 anni, io comunque continuerò a fare il mio.

R: Intervista finita, qualche ultima osservazione o shout out?

KA: Volevo ringraziare te e il sito che ospita quest’intervista. È un onore, è una figata pensare —considerando da dove vengo— che ci possa essere qualcuno in Italia che mi ascolta. Non hai idea, davvero, stare al telefono per parlare della mia musica con un italiano è un’opportunità per cui non sarò mai abbastanza grato.

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