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Speciale fly girls: intervista a Baby-K

11-07-2012 Marta Blumi Tripodi

Speciale fly girls: intervista a Baby-K

Continua il nostro viaggio tra le ragazze che fanno rap in Italia. Stavolta ci spostiamo in un universo quasi parallelo, quello di Baby-K. Cresciuta in quell’Inghilterra che ha adottato, ribaltato e contaminato l’hip hop creando fenomeni come la dubstep, il grime o il trip hop, ha un approccio al rap che ovviamente è completamente diverso da quello a cui siamo abituati da queste parti, ma non per questo meno genuino o d’impatto. Fermarsi alle apparenze sarebbe un errore: in Baby-K c’è molto più che una bella facciata e qualche ritornello accattivante, ed è ansiosa di dimostrarlo. Anche con questa intervista, in cui si racconta a 360° partendo dalle origini della sua musica, arrivando fino al suo nuovo EP Lezioni di volo e a un prestigioso contratto discografico in arrivo.

Blumi: Sei nata a Singapore e sei cresciuta a Londra: un’infanzia molto internazionale…

Baby-K: Di Singapore non ricordo niente, perché ci sono nata e basta. Tutti gli anni formativi li ho passati a Londra, dove ho anche frequentato tutte le scuole. I miei genitori sono italiani, abbiamo viaggiato molto a causa del lavoro di mio padre, e a volte anche a causa della sua mancanza, nel senso che quando non riusciva a trovarlo in Italia ci spostavamo all’estero. Crescere in una metropoli come Londra mi ha sicuramente influenzato, sia a livello di gusti che di visione del mondo.
B: In effetti il tuo è un sound molto internazionale. Essendo tu bilingue, come mai non hai pensato di cantare in inglese?

B.K.: Inizialmente scrivevo in inglese, anche perché ho iniziato quando ero ancora in Inghilterra. In molti mi chiedono come mai non abbia continuato su questa strada, garantendomi un pubblico più vasto. Da una parte mi sembrava quasi troppo facile, quando sono arrivata in Italia, rappare in inglese: della serie “non tutti ti capiscono ma suona figo”… Dall’altra, avevo avuto la conferma di una mia intuizione iniziale, ovvero che gli italiani sono molto più legati ai testi rispetto agli anglosassoni, che invece preferiscono metriche e sonorità più accattivanti. Così ho deciso che se dovevo fare rap in Italia, era il caso di farlo in italiano.
B: L’hip hop, invece, come l’hai scoperto?

B.K.: Quando ero a Londra tutti i miei amici ascoltavano UK Garage e 2-step, due generi molto affini all’hip hop e all’R’n’B perché hanno campioni e sonorità simili, utilizzati però su beat molto più veloci e sincopati, con un’atmosfera più party e leggera. Noi ragazzi della periferia di Londra siamo tutti cresciuti con questo tipo di musica, che lì è parte integrante della street culture. È stato solo quando mi sono trasferita in Italia, però, che ho scoperto che le radici dell’UK Garage affondavano direttamente nell’hip hop: ho iniziato ad approfondire la questione e ho scoperto canzoni che mi hanno letteralmente fatto innamorare, come Poison di Nas. A quel punto ho capito che per me non era semplicemente un interesse secondario. Ho fatto una ricerca a ritroso, mi sono informata, ho studiato a lungo e poi ho preso la mia decisione: avrei scritto solo in italiano e lo avrei fatto solo su basi hip hop.
B: Il tuo suono, comunque, si distingue molto dal rap tradizionale, e molti pensano che questo tipo di sound non possa essere considerato hip hop. Cosa risponderesti?

B.K.: Io credo che queste persone non si siano accorte che il sound hip hop sta cambiando e nuove influenze si diffondono ovunque. C’è gente che ha ovviamente come riferimento il rap classico, ma certamente gli artisti che seguono solo quel filone sono sempre di più: basti pensare a Emis Killa, ai Club Dogo, agli Xtreme Team… Senza contare che i beat che ho usato per Lezioni di volo sono tutti di rapper americani e rientrano nel genere hip hop, quindi non vedo una gran contraddizione in quello che faccio.
B: Beh, in realtà non sempre: ce n’è uno di M.I.A., che rappa ma non fa propriamente hip hop, e ce n’è perfino uno ripresa da James Blake, che con la cultura urban non c’entra proprio niente…

B.K: Sì, è vero. Però di James Blake ho usato solo un campione (quello di Limit to your love, riutilizzato in questo caso da Shablo, ndr), mentre riguardo a M.I.A., anche se magari non rientra del tutto nel genere hip hop, quel beat (di Bad girls, ndr) mi ricorda tantissimo certe produzioni di Timbaland… Vogliamo dire che Timbaland non è hip hop? (ride). L’unico episodio un po’ più R’n’B è preso da una base di Drake. Il rap negli anni si è evoluto e si è contaminato, ma la sua anima è sempre la stessa. Magari è più difficile definirlo a parole, ma se senti qualcosa di hip hop lo riconosci.
B: A proposito delle basi, una curiosità: come mai nel “booklet”, se così lo vogliamo chiamare, non hai specificato quali erano le strumentali che hai usato?

B.K.: In realtà Lezioni di volo all’inizio non doveva essere un EP, ma un mixtape: si sente che era destinato ad esserlo, sia dalle strumentali già edite che dalla quantità di featuring. All’ultimo abbiamo deciso di dividerlo in due, una parte che raccogliesse la maggior parte delle collaborazioni (questa, appunto) e una seconda parte che uscirà più avanti, con beat originali e pezzi più ragionati. Avendo visto che molti altri artisti non indicavano quali erano le basi utilizzate nei loro mixtape, ho deciso di non farlo neanch’io.
B: Parliamo di Lezioni di volo. Vivi un momento professionalmente molto fortunato e c’è molto hype attorno a te, in questo periodo. Perché fare un EP in free download e non partire immediatamente con un album, magari con un’etichetta prestigiosa o con una major?

B.K.: Banalmente, perché mi rendo conto di essere all’inizio di un percorso, che magari ha più potenziale di prima ma che comunque è ancora molto lungo. Non mi sento affatto arrivata: so di aver fatto molto, ma ogni volta mi dico che avrei dovuto fare di più. Voglio consolidare la mia fan base, prima di tutto, in modo che quando davvero uscirà il mio primo album, ci saranno tante persone che mi conoscono e che saranno felici di ascoltarlo. Mi sembra la scelta migliore, perché non voglio realizzare un disco mettendoci l’anima e poi sprecarlo perché la cassa di risonanza è ancora troppo piccola e fragile. E poi, volevo buttare fuori un po’ di musica nuova, senza dover aspettare i tempi discografici: è passato talmente tanto tempo da Femmina alfa…
B: Hai ricevuto delle proposte da alcune major però, vero?

B.K.: Sì, alla fine sì. L’album ufficiale uscirà per Sony Epic… (ride) Scusa, mi viene da ridere perché ancora non ci credo quasi! Non per questo, però, interromperò la collaborazione con Quadraro Basement, che ormai da tempo è il mio team e mi segue in tutto e per tutto, dalla registrazione al management. Quando una squadra funziona e c’è affiatamento, bisogna tenersela stretta.
B: Parlando di musica, viene spontaneo confrontare il tuo stile con quello di una serie di mc donne non proprio convenzionali: M.I.A., Azealia Banks, ma anche Nelly Furtado nel suo album con Timbaland. Le tue figure di riferimento sono effettivamente queste?

B.K.: Innanzitutto sono contenta che tu abbia citato Azealia Banks e non Iggy Azalea! (la prima è considerata una ragazzina prodigio dall’intero music business, la seconda è un’ex modella australiana salita agli onori della cronaca soprattutto per il suo look, ndr) Oltre al fatto che non amo la musica che fa, nelle interviste non dice granché di interessante e devo ancora capire perché, pur essendo australiana, rappa con l’accento di Atlanta… Si veste molto bene, però! (ride) Detto questo, quelle che hai nominato sono tutte artiste che mi piacciono moltissimo: soprattutto Azealia Banks, anche se bisogna ancora capire se manterrà le sue promesse. È nata come un fenomeno del web, ma in America ormai funziona così: la gavetta conta poco, basta un singolo di successo per firmare un contratto prestigioso o per finire a suonare al Coachella Festival, com’è capitato a lei. Adoro anche M.I.A., che è unica nel suo genere, anche a livello di look: non si ispira a nessuno e ha realmente inventato qualcosa. Naturalmente la sento molto vicina anche perché è di Londra e perché, prima di questa sua ultima svolta, era una rapper grime, che alla fin fine è un’evoluzione del “mio” UK Garage. Fino all’anno scorso anche Nicki Minaj era nella mia lista di artiste di riferimento, mentre saldamente al top della classifica c’è ancora Rihanna; l’R’n’B mi piace molto e le sue canzoni mi prendono tantissimo, da quelle più pop a quelle in stile Rude boy.
B: Visto che hai parlato molto del look delle tue colleghe, approfittiamo per parlare del tuo, molto particolare e curato in ogni dettaglio. Secondo te in Italia avere un’immagine forte è una cosa buona o magari ti penalizza in qualche modo?

B.K.: Più che dell’Italia, bisognerebbe parlare di un circuito di nicchia interno all’hip hop… In questo piccolo ambito se badi alla moda sei considerata una cretina, tutta apparenza e niente sostanza. Mi sembra un controsenso incredibile: se sostieni che il look non conti niente, allora perché ti preoccupi di guardare come sono vestita? Se invece per te il look conta qualcosa, allora perché mi critichi per il fatto che cerco di creare uno stile personale? A me l’ambito fashion piace molto, ed è per quello che curo la mia immagine; tra l’altro penso di non essere certo l’unica al mondo. La mia priorità resta sempre e comunque fare musica, anche perché altrimenti avrei fatto la stilista e non la rapper, però la moda è una mia grande passione, e non vedo perché dovrei nasconderlo.
B: Rimanendo in tema di pregiudizi, una domanda quasi scontata: ce n’è qualcuno, nei confronti delle donne nel rap?

B.K.: Quello che penso io è che essere donna o essere uomo non dovrebbe proprio contare nulla: solo la musica dovrebbe essere importante. Molti credono che i rapper maschi facciano a cazzotti per emergere, mentre le donne avrebbero la vita più facile: secondo me, invece, è più semplice ottenere l’attenzione della gente e suscitare curiosità, perché siamo in poche, ma poi farti ascoltare davvero e metterti al riparo dai pregiudizi è molto più complicato, per non parlare di guadagnarsi credibilità e rispetto. Ovviamente i commenti che pubblicano in giro su di me li leggo. Dicono che se fossi stata un cesso nessuno mi avrebbe mai preso in considerazione: con un uomo non si sognerebbero mai di farlo… Per come la vedo io, comunque, finora le ragazze sono poche soprattutto perché il rap non è mai entrato nella cultura popolare e nell’immaginario delle ragazze “normali”: non girano con le crew, non vanno ai concerti, non capitano mai in studio. Non essendo un fenomeno di massa neanche per le ascoltatrici, è difficile che a qualcuna venga voglia di provare in prima persona a farlo.
B: Rimanendo in tema di emergenti, nel tuo pezzo Cosa non farebbero parli di persone che sarebbero disposte a qualsiasi sotterfugio per avere i loro cinque minuti di credibilità. L’impressione è che ultimamente su questo fronte la situazione stia peggiorando parecchio, soprattutto tra le nuove leve di musicisti…

B.K.: È assolutamente così, a partire da chi partecipa ai reality show tanto per la voglia di diventare famoso. Sono cose che onestamente non capisco, mi sembrano stupide e controproducenti: per avere successo non basta essere famosi, ci vuole longevità, e non potrai mai ottenerla se non hai un buon prodotto di base. Stesso discorso per le views comprate su YouTube: quelli che lo fanno sono tantissimi, molti più di quanto possiate immaginare, e lo so per certo. So che molti sospettano che l’abbia fatto anch’io, ma sono orgogliosa di dire che non ho mai comprato un clic in vita mia.
B: Progetti futuri?

B.K.: Presto uscirà la seconda parte del mio mixtape, ma non so se si chiamerà ancora Lezioni di volo o no, perché vogliamo capire se l’anima è la stessa, diciamo. Il primo video estratto, Sparami, uscirà già questo mese, mentre il secondo, che vede la collaborazione di Vacca, sarà fuori a settembre. Dopodiché mi metterò sul serio a lavorare al disco.