L’universo dei videogame ha sempre mostrato uno spiccato interesse per l’hip hop a trecentosessanta gradi: le quattro discipline, l’immaginario, la musica e il lifestyle sono stati in più di un’occasione una preziosa fonte d’ispirazione per gli sviluppatori di tutto il mondo. Per rappresentare appieno la cultura hip hop, però, mancava un tassello fondamentale: la breakdance. Lacuna che sarà colmata dal prossimo settembre, quando debutterà sul mercato il primo gioco a tema: B-Boy: The game.
Nato dalla fantasia degli sviluppatori Sony Playstation e FreeStyle Games, B-Boy: The game si preannuncia come un’incursione del tutto realistica nel mondo della breakdance, grazie anche alla collaborazione di parecchi b-boy: l’impresa vanta infatti un padrino d’eccezione, Crazy Legs, che si è prestato a far da consulente lungo tutto l’arco della lavorazione. La partecipazione attiva di numerosi tra i diretti interessati ha permesso di accentuare la veridicità del gioco in ogni ambito e direzione. Tanto per cominciare ogni singolo passo di danza, dal toprock alla super power move, è stato creato con un sistema di motion capture, che permette di ricostruire il movimento virtuale ricalcandolo su colui che lo esegue nella realtà, per un totale di più di ottocento move diverse e originali. In secondo luogo, i b-boy sono stati interpellati anche circa i particolari legati alle loro abitudini. Le sonorità più adatte all’allenamento e alla competizione, l’abbigliamento, gli stimoli che motivano alla vittoria di un contest; nulla è stato lasciato al caso.
B-Boy: The game consiste essenzialmente in due grandi aree tematiche: una legata alla competizione, l’altra attinente alla quotidianità. Il giocatore, che impersona inizialmente un b-boy/una b-girl alle prime armi, dovrà imparare a eseguire alla perfezione moves e passi per poi duellare con altri breaker (gli avversari disponibili sono più di quaranta, ivi comprese superstar realmente esistenti come Crazy Legs stesso) sulle note di quaranta brani che spaziano dall’old school ai ritmi più recenti. Mano a mano che le sfide vengono vinte in tecnica e stile, il teatro della competizione si sposta in scenari sempre più prestigiosi, dalla strada alle arene dei grandi contest internazionali. Il nostro eroe, però, deve fare i conti anche con la realtà: come hip hopper è tenuto a guadagnare rispetto, necessita di un costante allenamento, ha bisogno di tenersi informato su gare e sfide, deve crearsi una crew degna della sua fama, vuole riuscire a vivere della sua arte. La modalità di gioco B-Boy life permette di concentrarsi proprio su quei particolari dell’esistenza concreta normalmente trascurati. Più la carriera del b-boy procede, più la sua vita di tutti i giorni è conforme alle aspettative, più le opportunità per lui si moltiplicano: gli sponsor si offrono di arredare casa sua, ad esempio, o di arricchire il suo guardaroba con capi più pratici e tecnici.
Il risultato finale è un videogame che soddisfa pienamente sviluppatori, giocatori e soprattutto b-boy: “La nostra collaborazione ha assicurato alla comunità hip hop che l’integrità e l’arte del breaking non vengano compromesse” ci racconta Crazy Legs stesso. “È bello sapere che, per creare questo gioco, si sono impegnati attivamente per cercare i veri b-boy che dominano la scena attuale”.
Blumi: Come sei arrivato a collaborare con Playstation per la realizzazione di B-boy: the game? Credi che il gioco riesca a catturare lo spirito del b-boying?
Crazy Legs: La proposta è partita da un mio amico, un b-boy che ha partecipato agli UK Championship e che adesso lavora con la Sony Playstation: l’idea di un videogame dedicato alla breakdance mi è piaciuta subito e ho accettato volentieri di dare il mio contributo per gli aspetti più legati alla danza, come la messa a punto delle moves e la scelta della colonna sonora. Quanto all’altra domanda, beh, può un semplice videogioco ricreare davvero lo spirito del b-boying? Diciamo che ha reso al massimo tutto ciò che un gioco può rendere: le moves e i passi sono creati in motion capture e sono incredibilmente realistici, le sfide e gli scenari risultano molto credibili, le musiche sono quelle che userei anch’io per ballare.
B.: Hai seguito l’evoluzione del b-boying fin dalle origini: è cambiato qualcosa dalla vecchia scuola alla breakdance di adesso?
C.L.: Il b-boying ha attraversato diverse fasi. All’inizio non si poteva neanche parlare di qualcosa di unitario: ciascun breaker aveva il suo stile personale e se lo costruiva man mano, non esisteva un modo corretto o impostato di eseguire i passi, c’era semplicemente la musica, così piena di passione e di anima che dovevi per forza tradurre i tuoi sentimenti in movimento. Poi tutto è diventato più tecnico: la gente studiava come un compitino quello che era giusto fare e quello che no, tutta l’attenzione sembrava incentrata sulle power moves e non sulla danza vera e propria. Adesso si direbbe che stiamo tornando alle origini: si torna a prestare attenzione a ciò che conta davvero, finalmente.
B.: Hai avuto occasione di girare tutto il mondo e di ballare con b-boy di ogni angolo del globo: vedi differenza tra l’approccio e la tecnica dei breaker delle varie nazioni?
C.L.: Ognuno ha ragioni diverse per ballare, ma la passione che ti muove è sempre la stessa, qualsiasi sia la nazionalità o l’etnia del b-boy nel cerchio. Anche la tecnica è ormai diffusa: vent’anni fa magari c’erano meno contatti tra una sponda dell’oceano e l’altra e adesso che viaggiare è molto più facile, così come trovare i video delle esibizioni, puoi vedere la stessa move in un contest giapponese come in uno americano o francese. È qui che entra in campo la creatività del singolo: devi fare qualcosa di nuovo in un mondo in cui tutto è già visto.
B.: Sei impegnato in qualche progetto, al momento?
C.L.: Grazie al patrocinio di RedBull sto girando le università degli Stati Uniti: facciamo degli stage nei vari campus per promuovere il b-boying a tutti i livelli. È un’esperienza molto gratificante, sono contento di aver intrapreso quest’avventura.