Se l’hip hop è strada, quest’intervista può veramente definirsi underground. Metti uno di quei giorni in cui Milano vuole mostrarti il suo lato più freddo, non soltanto dal punto di vista meteorologico, uno di quei giorni in cui le strade ti sembrano più grigie di quanto non lo siano in realtà; metti una di quelle vie come tante, fuori ad un edificio come tanti, davanti ad un muro dell’Armata 16 che contribuisce a rendere molto più hip hop il tutto. Metti due cronisti allo sbaraglio, un microfono del karaoke ed un mini-disc che fa le bizze - più street di così in giro non ne trovi. Incontriamo Turi all’uscita di RIN, dove ha partecipato alla registrazione di Streetstyle; quello che segue è il resoconto di una chiacchierata, più che di un’intervista, uno stimolante confronto con un artista da anni sulla scena che ha ormai raggiunto un grado di piena maturità.
Icon & Darkeemo: Tu sei calabrese, e le tue origini emergono in maniera prepotente nella tua musica. L’Italia ha sempre avuto la tendenza ad individuare delle “capitali” a livello di hip hop, penso a Roma piuttosto che Bologna o Milano; questo invece è un gran momento per una realtà spesso sottovalutata come la Calabria, si vedano due lavori come l’ep di Kiave o il disco di Fiume e L-Mare che sono tra le uscite migliori di questo inizio 2005. Come mai è così difficile emergere in un contesto come quello calabrese?
Turi: Guarda, probabilmente è un discorso di disponibilità; io ho vissuto in Calabria fino a 14 anni, poi mi sono trasferito a Roma dove ho avuto maggiori opportunità rispetto ad altri. Personaggi come L-Mare hanno dovuto tribolare di più; infatti a lui, così come a Kiave, ho cercato di dare una mano e loro pian piano sono riusciti ad emergere un minimo. Credo che i talenti in realtà siano dappertutto, il ragazzo talentuoso puoi trovarlo anche nel paesino più nascosto, la vera difficoltà sta nell’emergere, ed in Calabria ciò non è affatto semplice soprattutto perché si tratta di un contesto piuttosto isolato. Quest’isolamento presenta allo stesso tempo vantaggi e svantaggi: da un lato hai la possibilità di condurre il tuo viaggio, senza farti contaminare da altra roba: a Milano succede spesso che duemila gruppi si ispirino al Club Dogo o a Bassi, così come a Roma duemila gruppi tentano di emulare me, il Colle o i CorVeleno, in Calabria giocoforza ciò non accade; dall’altro però non riesci ad esporti,a farti vedere, non hai l’occasione di fare live, il nome non gira, resta circoscritto a quell’ambito.
I. & D.: Parliamo del tuo ultimo disco, “L’amico degli amici”. Ci sono degli argomenti che ricorrono in diversi pezzi, il più evidente è il tema delle donne, che viene presentato in diversi modi: parli delle groupie, delle finte alternative ma allo stesso tempo trovi lo spazio per l’amore propriamente detto. Hai approfondito aspetti che non ricorrono spesso nelle canzoni rap.
T.: Ci tengo a precisare di non essere misogino, visto che sono stato accusato più volte ! Semplicemente, si tratta di raccontare le situazioni che vivi, ho quasi 30 anni, non riesco più a fare solo punchline come i ragazzi di adesso, di conseguenza gli argomenti sono diversi; se al momento (purtroppo) la mia musa ispiratrice è la donna ben venga faccio pezzi sulle donne, argomento che tra l’altro si presta molto bene al mio lato ironico. Più in generale, sto cercando di utilizzare il linguaggio hip hop per comunicare con tutti: il mio nuovo disco, ad esempio, non tratterà argomenti specificatamente “di nicchia”.
I. & D.: Hai appena detto una cosa molto importante; spesso la gente si auto-ghettizza, chi fa questo genere di solito tende a puntare solo su quella ristretta cerchi di adepti senza cercare di andare oltre. Credo che invece sarebbe stimolante cercare di arrivare a tutti con il linguaggio del rap, senza necessariamente snaturarlo.
T.: Questo infatti è il mio obbiettivo, e penso che dovrebbe essere lo stesso di tutti coloro che cercano di vivere l’hip hop e la musica in generale, in maniera professionale. Ci deve essere una crescita: io non posso passare tutta la vita a fare demo o album che parlino dello stesso argomento, la mia musica dal punto di vista tecnico non dovrà suonare sempre uguale; ci dev’essere per forza un’evoluzione, altrimenti il tutto non cresce, e per raggiungere questo scopo un confronto con l’esterno è indispensabile: succede in America, in Germania, in Francia, non vedo perché non possa accadere anche in Italia.
I. & D.: Tornando a parlare in ambito più prettamente hip hop, è palese che in questi ultimi tempi vi è un grande fermento nel mercato nostrano, ogni mese escono parecchi dischi: temi che sia concreto il rischio di una saturazione, di un crollo, come del resto già accaduto qualche anno fa?
T.: Credo che rispetto al ‘97-‘98 ora ci sia più selezione: non è più come allora, quando ogni giorno nasceva una nuova etichetta pronta a reclamizzare quel tal prodotto che nella maggior parte dei casi non valeva una cippa. Adesso c’è gente molto più valida; certo, i prodotti di scarsa qualità esistono e continueranno ad esistere, e credo che spetti agli addetti ai lavori, sia artisti che media, la responsabilità di “filtrare” questa roba, riuscire da un lato a dare credito magari ad un ragazzo che se ne esce fuori con un suo viaggio originale, dall’altro a far crescere persone che dal punto di vista artistico ora non sono questo granché. Molte volte capita di apprezzare un mc soltanto per le rime, poi lo vedi dal vivo ed è una pippa; oppure ti sembra un fenomeno in freestyle, senti il suo disco ed è una cagata… ci dovrebbe essere molto più equilibrio sotto questo punto di vista.
I. & D.: Conta molto anche il discorso del nome, supportare un rapper più per quello che ha rappresentato che per il suo effettivo valore attuale…
T.: Esatto, è un discorso universale che non ha a che vedere con la nuova o la vecchia scuola, ci sono sempre stati sia quelli capaci che gli scarsi.
I. & D.: Pensi che esista un ricambio generazionale? Mi spiego: credi che esistano nomi della cosiddetta “nuova scuola” in grado di affiancarsi ai “mostri sacri”? Non so, io penso a Kaos, al Danno, e non vedo tra i rapper emergenti artisti con una personalità, un carisma tale da poter prendere il loro posto.
T.: Su questo sono d’accordo con te, una volta le personalità nei dischi, nei viaggi, erano molto più marcate, basti pensare ai Sangue Misto, oltre ai nomi che hai citato. Adesso è un po’ diverso, ognuno cerca di ciucciare da più parti, vi è una cosa molto più “generalista”, infatti chi cerca di instradarsi verso un suo viaggio particolare spesso non viene capito…è una grossa pecca, dimostra che culturalmente parlando non siamo preparati, quest’omologazione non è senz’altro una cosa positiva.
I. & D.: Tu hai vissuto l’esperienza di Robba Coatta, quindi sei entrato in contatto con una realtà più ampia, con il mondo delle grandi etichette. Cosa ti ha lasciato quel periodo e come pensi che l’hip hop possa evolversi verso questi ambiti alla ricerca di una maggiore popolarità?
T.: L’avventura di Robba Coatta l’ho vissuta con totale incoscienza, perché ero sempre ubriaco (risate generali)…a lungo andare comunque ti rompi un po’ i coglioni a fare sempre “il supercafone eccolo qua”. Ero un ragazzo di 22-23 anni, proiettato in situazioni assurde, storie come due concerti in un giorno, ti sbattevano da un posto all’altro in continuazione. Nonostante l’abbia vissuta con ingenuità mi ha permesso di capire un sacco di cose, ad esempio che se noi rapper vogliamo considerarci artisti a tutti gli effetti dobbiamo riuscire a confrontarci con il business che gira attorno a questa faccenda, l’esperienza con Tommaso (Piotta, ndr) mi ha insegnato molto da questo punto di vista. Grazie alle situazioni che ho vissuto poi sono riuscito ad ottenere un contratto e ho imparato come funzionano le cose in ambito discografico, l’aspetto promozionale e così via. Per quanto riguarda invece il fare emergere questa roba in un ambito più ampio, penso che al momento il rap italiano in un’ipotetica scala da 1 a 10 abbia raggiunto il 6. A mio modestissimo parere, e mi ci metto in mezzo anche io, ci manca ancora qualcosa per fare il passo decisivo, mancano ancora dei tasselli affinché questo puzzle sia completo. Piano piano il linguaggio hip hop si sta facendo largo tra i media, ma manca ancora quel tocco decisivo perchè ciò diventi realtà. Ci vuole ancora tempo, ma questo è comprensibile: dal punto di vista dei suoni certe cose non ti possono venire, qui non sei in America; dal punto di vista culturale non è semplicissimo far ascoltare e inglobare questa roba a gente che ha Mina come background.
I. & D.: Credi veramente che sia possibile?
T.: Secondo me sì, è possibile, ma l’Italia a livello musicale è un mondo a sé, siamo abbastanza “pecoroni”, ci sono personaggi come Bus che magari si occupano di questa roba da una vita e poi nei grossi network incaricano dell’organizzazione di un programma hip hop, o presunto tale, individui che non ci capiscono una sega… questo è un po’ il cancro dell’hip hop italiano. Ci vuole gente competente, ad esempio non capisco perché nel momento in cui Giorgia, Alexia o chicchessia vuole fare una roba rap debba rivolgersi ad arrangiatori classici, che a loro volta copiano da Dre o da altri produttori, piuttosto che rivolgersi a me o ad un altro producer italiano che sarebbe in grado di dare quel suono che cercano. Ed è una cosa che succede solo in Italia, altrove non funziona così.
I. & D.: Tornando a parlare del Piotta, la sua “Grande Onda” è una delle poche realtà discografiche che dedica tempo e denaro al rap, insieme a Vibra e all’Antibe. Quali pensi possano essere le prospettive per queste etichette, anche alla luce delle difficoltà del mercato? Pensi possano verificarsi crolli come accaduto in passato, mi riferisco ad esempio all’ingloriosa fine della Cd Club?
T.: Non si rischia un crollo, perché non si tratta di major con 1500 dipendenti e 50 milioni annui di fatturato. Alla fine voliamo tutti bassi; per farti un esempio, il mio video è stato girato con un budget molto ristretto. Quindi alla fine non vedo tutto questo rischio, per dirti, Vibra vendeva un buon numero di dischi anche negli anni di crisi, come il periodo 2000/2001. Un minimo di linfa c’è, bisogna sfruttarla. Se queste piccole etichette venissero inglobate da una major potrebbero delinearsi nuove traiettorie e nuove prospettive e si potrebbe iniziare a fare un discorso più ampio; in quel caso il rischio di una saturazione del mercato o di un passo falso sarebbe maggiore, si tratterebbe anche di come convincere un artista hip hop a fare qualcosa di cui non ne ha le capacità. Cd Club è stata un caso a sé, una sorta di scheggia impazzita, c’era questo personaggio in giacca e cravatta che ti contattava alle jam e ti seguiva ovunque per convincerti a firmare, magari aveva dei buoni propositi, però purtroppo in Italia non si poteva ancora creare una situazione del genere, non era il momento giusto ed ciò ha contribuito al crollo del mercato di quegli anni.
I. & D.: In che rapporto ti poni con l’autoproduzione?
T.: Ai giovani consiglio vivamente l’autoproduzione, gli serve per farsi le ossa; realizzare in prima persona il proprio prodotto è sicuramente uno sforzo notevole, soprattutto per quanto riguarda la promozione, spesso è difficile che uno sconosciuto venga preso in considerazione. Però è un passo fondamentale per la formazione di un artista: in Italia non siamo ancora in grado di prendere il ragazzino di 17 anni e affidargli un mega-progetto, perché poi rischia di montarsi la testa o di non sapere in che modo comportarsi. Iniziare con un demo o un promo è sempre l’ideale; poi, se vuoi tentare la strada dell’etichetta o se qualche casa discografica ti contatta, ben venga. In Italia c’è tutta questa fotta di avere un contratto, tanti ragazzini mi contattano premendo per essere prodotti, ma a parte il fatto che io non c’entro nulla con le scelte della mia etichetta, è il ragionamento in sé ad essere sbagliato.
I. & D.: Beh, mi sembra anche normale che un ragazzino alle prime armi cerchi l’approvazione da parte dei veterani della scena. Penso però che per un rapper ottenere l’approvazione o comunque dei buoni riscontri da parte di persone estranee a quest’ambiente possa essere una soddisfazione più grande, sei d’accordo?
T.: Sì, certamente, infatti il mio obbiettivo è questo, che anche tuo nonno possa ascoltarmi… ci dev’essere una crescita, da questo punto di vista. Poi ti dico, la musica è questa, l’hip hop è così, non puoi addomesticarlo, è come un cavallo pazzo, al limite lo puoi addestrare, fargli capire che le zoccolate non deve darle a tutti, puoi fargli imparare determinati comportamenti, ma non puoi cambiargli la testa.
I. & D.: E in quest’ottica quali prospettive vedi per l’hip hop in Italia, dove stiamo andando?
T.: Guarda, io diventerò presidente di Mediaset… (risate). Scherzi a parte, non so in che modo possa evolversi la situazione, resta il fatto che l’Italia è, come già ti ho detto, “pecorona”, quindi considerato che in America le cose vanno benone può essere che ciò accada anche da noi. Una volta andava così, le etichette seguivano molto il trend statunitense, venivano da te cercando il nuovo Eminem o il 50 Cent italiano: devono capire che non è così, ogni gruppo ha la sua identità… se poi ti metti di proposito ad imitare Eminem o artisti che non ti rappresentano, sono affari tuoi. Quelli della mia generazione sentono molto questo discorso: la musica per i ragazzini non dev’essere una cosa ridicola, tu mandi loro un messaggio che dev’essere inglobato da tutta la musica, tutta, non dev’essere una cosa di nicchia, come un rave.Ciononostante ognuno continua a pensare ai cazzi propri, non cerca di allargarsi, di capire le dinamiche, non ci sono buoni propositi. E’ il solito discorso della musica di nicchia, e io sinceramente mi sono rotto di fare musica di nicchia.
I. & D.: Però spesso c’è il rischio di scendere in integralismi inutili, i Talebani dell’hip hop sono in mezzo a noi
T.: Ogni ragazzino che si avvicina all’hip hop di solito segue un iter ben determinato, è normale… all’inizio, a 14 anni, sei mega-hardcore, odi tutto e tutti, poi passano gli anni, inizi a capire e a farti influenzare… alla fine arrivi ad un livello di “open-mind”, per dirti, se io ripenso a com’ero qualche anno fa mi sento davvero ridicolo. Ora invece ho una visione globale delle cose, mi sento un musicista, devo comunicare con la gente, non mi posso fare le pippe mentali, non posso pensare al ragazzino di Busto Arsizio che si lamenta per una determinata rima, un ritornello cantato, o un featuring alla persona sbagliata. Io non mi ci identifico più, il prossimo disco cercherò di portarlo ad un livello superiore, cercherò di fare un passo in avanti, non voglio che la mia musica resti un’esclusiva per i 2/3.000 cani malati che ci sono in Italia e che si masterizzano pure i dischi… mi prende malissimo questa cosa. Io ci metto l’anima, mi faccio un culo incredibile per 9 mesi, un anno… per cosa? Per venire su un forum come il vostro e venire riempito di insulti? Chiariamo, il forum in sé ha delle grosse potenzialità e potrebbe essere uno strumento fantastico, però dipende dal modo, dall’approccio con cui viene sfruttato. Anche Internet di per sé presenta un sacco di aspetti positivi, capisco che il ragazzino prima di spendere 20 euro per acquistare un disco voglia ascoltare una preview e sapere cosa aspettarsi, però ci deve essere un limite.
I. & D.: Sempre a proposito di Internet, al momento, almeno in Italia, l’hip hop potremmo dire che si vive più tra le mura domestiche che alle jam o comunque in contesti più consoni. Cosa ne pensi?
T.: E’ un po’ triste, senza dubbio… Come, da appassionato di dischi d’epoca che vaga per i mercatini marci alla ricerca dei vinili più nascosti, trovo triste acquistare questi dischi stando seduti a casa, orinandoli con un click… non è la stessa cosa. Da un lato è positivo, penso al ragazzino di Reggio Calabria che senza internet non avrebbe la possibilità di trovare i dischi, ad esempio. Dall’altro però ti priva del contatto umano… non so, il ragazzino che prepara la sua demo stando davanti ad un pc, di cosa potrà parlare? Di sua madre che gli porta la merenda? Di sua sorella con le mestruazioni? E’ paradossale come cosa… tutti ripetono “l’hip hop è strada, è vita, è realtà”, per poi rimanere chiusi in casa. Se non vivi le tue esperienze, non conosci persone, non vivi una storia d’amore, chessò, un litigio con gli amici, cosa mi vieni a raccontare?
I. & D.: Classica domanda paraculo per terminare il tutto: progetti per il futuro?
T.: Sto lavorando da poco al disco nuovo, saranno 2/3 mesi, con estrema calma, quindi non posso promettere date precise. Sto suonando dal vivo, ho finalmente un sito in via di completamento, https://www.funkyturi.com, dove potete trovare le date dei miei live, lasciare messaggi e quant’altro sul guest-book… sono multimediale pure io, quindi che cazzo volete di più?!?